venerdì 25 novembre 2011

IL TEMPO DELLA VASELINA 



Fine della Seconda Repubblica? Certamente

Inizio della Terza Repubblica? Forse

di Costanzo Preve

1. Scrivo queste brevi note il 17 novembre 2011 dopo aver seguito con attenzione le dichiarazioni programmatiche del nuovo governo Monti al Senato. Ho già messo in rete due pezzi recenti. Il primo, intitolato Berlusconeide, scritto per gli amici greci e francesi che mi onorano della loro stima, cerca di fare un bilancio antropologico-culturale di quella vera e propria oscenità storica che è stato l’antiberlusconismo, la cui funzione storica di fondo è stata quella di far dimenticare la dipendenza interna (FMI e BCE) ed estera (USA e NATO) a quel conglomerato sociologico di ingenui che in Italia ha preso il nome di “sinistra”. Il secondo, immensamente più importante del primo, perché strutturale e non soltanto congiunturale, ha cercato di mettere a fuoco l’intrecciarsi di due dialettiche, la dialettica vincente della illimitatezza capitalistica e la dialettica perdente della corruzione del movimento storico comunista (nulla a che vedere con il comunismo “ideale eterno”, come avrebbe detto Vico, di cui continuo ad essere un testardo sostenitore filosofico).


Queste note, certo meno importanti delle precedenti, concernono purtroppo solo la chiacchiera politica. Ma dal momento che c’è chi mi ha detto che era contento che mi fossi rimesso a scrivere note politiche (per la verità, esclusivamente grazie a due amici che mi mettono in rete, visto che nessuna rivista “politicamente corretta” e lottizzata fra Destri e Sinistri saprebbe che farsene delle mie riflessioni, che resterebbero nel cassetto) può darsi che possano interessare a qualcuno.


2. Formalmente, la Seconda Repubblica non c’è mai stata, e quindi non ci può neppure essere la Terza. Ma sappiamo che la realtà storica non sa che farsene delle formalità dei costituzionalisti, che si inventano loro quando e dove la Costituzione viene violata e quando no (per questi signori in toga il puttaneggiare di Berlusconi è anticostituzionale, mentre la guerra contro la Libia non lo è). Utilizziamo allora un linguaggio nostro, perché se aspettiamo gli storici contemporaneisti corrotti della continua emergenza resistenziale antifascista in palese assenza di ogni fascismo, possiamo aspettare le Calende Greche.


La Prima Repubblica finisce con Mani Pulite, che fu un colpo di stato giudiziario extraparlamentare operato congiuntamente da fantocci giudiziari di destra (Di Pietro), di centro (Borrelli) e di sinistra (D’Ambrosio, quello del “malore attivo” di Pinelli), e avallato dal circo mediatico unanime, di centro, sinistra (Santoro) e destra (Montanelli).


Si trattava di operare un salto storico, e non solo politico. Chiudere con la Prima Repubblica, consociativa, corrotta, ma anche statalistica e keynesiana, dotata di un minimo di politica estera indipendente (Craxi, Andreotti). Oligarchie internazionali, Panfilo Britannia e banchieri apolidi (Ciampi) fecero il resto. I “comunisti”, che io personalmente chiamo soltanto “picisti” per non sporcare il nobile nome di comunismo, ci saltarono sopra come su di una “gioiosa macchina da guerra” (Occhetto), ansiosi di riciclarsi da venditori e piazzisti della via italiana al socialismo a partityo degli “onesti” rappresentanti delle oligarchie capitalistiche e della NATO (D’Alema nel Kosovo 1999, Napolitano nella Libia 2011). Ho insegnato storia per 35 anni, ma esempi di opportunismo, trasformismo e abiezione come questo non riesco a ricordare.


Berlusconi aveva i soldi per poter coprire il vuoto creato nel potenziale elettorato di centrodestra (ma anche della sinistra craxiana, da cui vengono Frattini e Tremonti) dalla liquidazione per via giudiziaria del personale politico DC, PSI, PSDI, PRI, PLI, la cui base elettorale, ci piaccia o no, era però la maggioranza del paese. Per poter nascondere questo fatto la cultura mediatica e universitaria di “sinistra”, sicura di egemonizzare la loro base di creduloni, si inventò un mito antropologico di origine gobettiano-azionista, quella di Berlusconi come rappresentante della furbizia degli italiani, popolo che la storia aveva privato della riforma protestante e dell’empirismo anglosassone.


E’ la storia della Seconda Repubblica, quella in cui gli italiani sono stati costretti a dividersi in due soli partiti: il partito dei B e il partito degli anti-B. Vorrei ripetere bene questo punto, perché temo che sembri troppo paradossale. In superficie c’erano molti partiti, compresi Pannella, Scilipoti, Cossutta, Bertinotti, Veltroni, eccetera. In profondità c’erano sempre e solo due partiti, i B e gli anti-B. Chi scrive si è precocemente chiamato fuori da questa mascherata fini da metà degli anni Novanta, pagando un modico prezzo in termini di diffamazione (rosso-bruno e altre sciocchezze). Ho imparato molto, soprattutto che molti che ritenevo nemici non lo erano, e molti che ritenevo amici non lo erano. Ma non personalizziamo troppo.


3. Berlusconi è stato indebolito certamente dalle campagne di stampa e dalla sua vergognosa e ingiustificabile vita privata di vecchio satiro incontinente, ma è stato rovesciato e commissionato non certo dalle “dieci domande” della banda De Benedetti-Scalfari, ma dai cosiddetti “mercati”, spread, eccetera. Egli era tollerato fino a che si pensava che potesse attuare quella normalizzazione anglosassone del capitalismo italiano che tutti gli ingenui di origine azionista invocano da un secolo come l’unico modo di guarire un “popolo delle scimmie” originatosi da un “risorgimento senza eroi”. E Berlusconi lo avrebbe anche fatto volentieri (ecco perché elogia Monti, e secondo me è sincero), ma non poteva farlo, per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, e nessun tacchino vota per il cenone di Natale, che comincia mettendolo in pentola.


Tutto qui l’enigma Berlusconi? Ma le cose non sono più complesse (la complessità è l’idolo dei confusionari e dei professori universitari)? Ma neppure per sogno, cari amici! Le cose sono semplicissime, e stanno veramente così.


4. Il governo Monti potrà fare ciò che non avrebbero potuto fare né Berlusconi, né Bersani, e tantomeno i fantocci urlanti tipo Di Pietro e Vendola. Ma non credo che saranno “lacrime e sangue” o “macelleria sociale”. Su questo mi spiace, ma non sono d’accordo con i catastrofisti, gli estremisti ed altri apocalittici. Trattandosi di tecnici (pensiamo a Passera, a Profumo, alla torinesissima Fornero, eccetera), sono certo che sapranno contemperare il loro progetto con una tempistica adeguata. E allora chiediamoci: qual è il loro progetto, per cui sono stati insediati dalle oligarchie post-borghesi che dominano il pianeta, con il loro seguito mercenario di ex-comunisti cinici e nichilisti? Macelleria sociale? No. Lacrime e sangue? No. E che cosa allora? Fino a che non si capirà cosa vogliono è del tutto inutile blaterare. Il mazzo è truccato, le carte sono segnate, e quindi accettare di mettersi a giocare è da incoscienti.


5. Il programma, in nome dell’Europa, è semplicemente la fine della eccezione capitalistica europea e la sua completa omogeneizzazione al modello anglosassone di capitalismo. Il capitalismo europeo, a causa di una doppia spinta dall’alto (Bismarck, Giolitti, De Gaulle, eccetera) e dal basso (movimento operaio e socialista, eccetera) non aveva mai potuto omologarsi in più di un secolo al modello americano del dominio assoluto dell’industria e della finanza, ma era stato costretto ad accettare quelli che le canaglie liberali e liberiste avevano chiamato “lacci e lacciuoli”, e di cui avevano auspicato per un secolo la fine.


Tutta la babbioneria dei tifosi identitari novecenteschi, a partire dal sottoscritto, era stata ipnotizzata dallo scontro tra fascismo e comunismo (quello storico novecentesco, non “ideale eterno” come il mio, che sono un idealista e un umanista esplicito, e mi spiace di far venire un colpo apoplettico a tutti i residui althusseriani e dellavolpiani ancora in servizio permanente effettivo). Ma fascismo e comunismo si sono rivelati due incidenti di percorso nel cammino dialettico del capitalismo mondiale. Altrove ho cercato di spiegare le cause di queste due pittoresche sconfitte, e qui non mi ripeto. Mi limito a ricordare un fatto.


Superati questi due incidenti di percorso, il ceto intellettuale ha certamente intrattenuto per mezzo secolo lo scontro simbolico e virtuale fra anticomunismo in assenza di comunismo e antifascismo in assenza di fascismo trovando chi era disposto a crederci, compreso lo scrivente fra il 1960 e il 1990. Ma oggi cominciamo finalmente a capire, con la torpida lentezza di chi si è fatto abbindolare per ideologismo identitario troppo a lungo, che la posta in gioco era un’altra: la fine della eccezione capitalistica europea e l’omogeneizzazione totale del capitalismo europeo all’unico modello americano.


6. Unico modello? Ma neppure per sogno! C’è anche un altro modello strategico di capitalismo, quello cinese. Ma quello cinese non è esportabile in Europa (nel terzo mondo invece forse sì), perché proviene da una storia particolare, l’innesto del maoismo come prima accumulazione del rapporto di capitale su di un substrato precedente di modo di produzione asiatico. Per questo non è un caso che la Cina diventi sempre di più l’avversario strategico degli USA.


E’ sufficiente studiare la grande strategia geopolitica USA. Su questo i lettori de “La Stampa” sono avvantaggiati, perché dispongono di una “gola profonda” al Dipartimento di Stato USA, Maurizio Molinari, che ci informa quotidianamente della strategia imperiale americana. Gli USA non cessano di provocare la Cina con il Dalai Lama. Karzai, il fantoccio afghano, ha già promesso agli USA basi militari permanenti, che potranno minacciare geopoliticamente sia la Cina che la Russia, essendo insediate nel cuore eurasiatico (lo Heartland dei geopolitici, che i criminali ex-comunisti russi hanno abbandonato consegnandolo agli USA). Gli USA hanno messo una base militare permanente a Darwin in Australia, che nessuno minaccia. Gli USA cercheranno di provocare conflitti sulle isole che fanno da contenzioso geografico fra Cina, Filippine e Vietnam. In Europa, tutte le classi dirigenti europee sono atlantiche, dai baltici ai portoghesi, dagli italiani ai polacchi.


7. Si presti attenzione al “lato esteri” del governo Monti. Alla Difesa va un generale che viene dall’Afghanistan, l’ammiraglio Di Paola, che dal suo teatro afghano di guerra ha accettato con un SMS. Si tratta di un alto stratega NATO, parte di quel gruppo di assassini che ha fatto di Sirte la nuova Guernica del Mediterraneo. Agli Esteri il signor Terzi, ambasciatore a Washington ed ex-ambasciatore a Tel Aviv, uomo fedelissimo agli americani e ai sionisti.


Se ci fosse ancora una “sinistra”, questo verrebbe notato. Ma siccome non c’è più, saranno pochissimi quelli che lo noteranno. La base di fedeli subalterni anti-B se ne frega della politica estera, non la vede neanche, e la sola cosa che gli interessa è quello che gli scribi dell’oligarchia finanziaria chiamano “ricambio antropologico” (cfr. Ceccarelli su “Repubblica” del 17 novembre 2011). Non c’è più il puttaniere, non ci sono più la Gelmini, la Minetti e Scilipoti! Evviva, evviva! Mettete ad alto volume i Carmina Burana! Cantate insieme Bella ciao e l’Inno di Mameli! Viva Napolitano, difensore della Costituzione!


8. Il tempo che verrà non sarà il tempo della macelleria sociale, ma il tempo della vaselina. I “tecnici” sono troppo abili per metterla violentemente in quel posto a Cipputi, come il tizio dell’ombrello disegnato dallo sciocco PD Altan, che ha a suo tempo inventato la Pimpa, ma ha poi messo la sua matita al servizio del Circo Bersani.


Ai lavoratori, ai precari e ai pensionati l’hanno già da tempo messa in quel posto. Mancano ancora i ceti medi, da liberalizzare totalmente, secondo il modello americano. Negli USA gli avvocati ricchi sono ricchi a miliardi, e gli avvocati poveri girano per i bar intorno alle carceri in cerca di clienti. Monti penserà certamente anche a questo, in nome della meritocrazia, dei giovani e delle donne. I rinnegati ex-comunisti lo aiuteranno certamente, fingendo di avere delle “riserve” con i loro elettori fidelizzati. Ora che non c’è più Berlusconi, bisognerà trovare dei nuovi “fascisti” e dei nuovi “populisti”, ma non sarà facile perché Alfano non si presta.


9. E l’opposizione? Certamente vi sarà, ma temo che non abbia senso nutrire troppe illusioni. Il movimento degli indignati? Certo, sono mille volte meglio di quelle vere e proprie prese in giro che sono stati i movimenti pacifista e altermondialista. Almeno costoro se la prendono con le oligarchie finanziarie. Ma in esso sono ancora troppo presenti illusioni alla Beppe Grillo per poterci veramente sperare.


La CGIL? Ma non scherziamo! La Camusso è organicamente legata al gruppo dirigente Bindi-Bersani. Farà un po’ di melina, farà dichiarazioni “severe”, ma ciò che conta è il livello strategico, e questo è assicurato.


La FIOM? Ma non scherziamo! Potrà piacere al “Manifesto”, insieme ai baci gay della Benetton, ma il signor Landini è semplicemente il contraltare del signor Marchionne. Per gente così il mondo comincia e finisce con Marchionne. Ora, il conflitto Landini-Marchionne passa a lato di tutto ciò che conta in Italia.


I signori Diliberto e Ferrero? Ma non scherziamo. Essi hanno un solo problema, salvare la baracca del loro microscopico ceto politico professionale, e possono farlo solamente attaccandosi alle bretelle di Bersani.


Il signor Ferrando e i microgruppi del fondamentalismo comunista? Ma non scherziamo. Costoro vendono sempre la vecchia merce del comunismo storico novecentesco, variante trotzkista (Ferrando) o variante stalinista (Rizzo). Io sono un amante e un cultore dell’archeologia e delle lingue morte, ma solo nei musei e nelle biblioteche.


I sindacati di base? Qui andiamo per fortuna un po’ meglio, perché almeno è gente del tutto al di fuori della grottesca mascherata B e anti-B. Non a caso, sono stati gli unici, insieme agli indignati, che hanno manifestato a Roma il 17 novembre, giorno dell’insediamento dellas giunta dei commissari FMI, BCE, USA e NATO. E’ bene dargliene atto.


10. E tuttavia, il difetto dei sindacati di base sta nel manico. Essi pensano di potersi opporre alla carica di un rinoceronte riproponendo le vecchie ricette economicistiche delle piattaforme sindacali, semplicemente prese sul serio e non usate come forme di manipolazione identitaria. Ma il tempo che ci aspetta è il tempo della vaselina. La giunta della BCE deve privatizzare tutto e liberalizzare tutto, e soprattutto deve applicare il modello della americanizzazione integrale dell’Europa, che copre anche l’appoggio strategico all’impero geopolitico americano. Si ricordi il WOW (uau) della strega Clinton all’annunzio della morte di Gheddafi. Mi ricorda i passi di danza fatti da Hitler dopo la presa di Parigi ricordati da Brecht nel suo diario fotografico.


Il baraccone ideologico che noi stessi abbiamo messo al potere (Gad Lerner, ex Lotta Continua, Adriano Sofri, ex Lotta Continua, Floris e Ballarò, eccetera) è formato da esperti in vaselina e in penetrazione indolore! Altro che il cavalier Banana di Altan e il suo ombrello che la mette in quel posto a Cipputi, il brontolone mormoratore subalterno che ha plasticamente incarnato la sconfitta storica della classe sociale più incapace della storia universale dal tempo degli antichi egizi.


Il tempo della vaselina è cominciato. Quanto tempo durerà non posso saperlo. Non posso escludere fatti nuovi. Per fortuna la storia è imprevedibile, e non assomiglia per nulla a quella caricatura impostaci per mezzo secolo dagli intellettuali storicistici del progresso. Berlusconi sarà probabilmente ricattabile con le sorti in Borsa di Mediaset. Il puttaniere tiene pur sempre famiglia, e deve lasciare ai suoi figli una proprietà ancora in piedi. La marmaglia anti-B che ne ha festeggiato la partenza urlando sconci insulti adesso sarà contenta con l’arrivo del tempo della vaselina. Ma forse la Terza Repubblica ci riserverà alcune sorprese.


Termino con un auspicio gramsciano: pessimismo della ragione, ottimismo della volontà. Bergson + Sorel. Non ci credo molto, tenuto conto della stupidità gregaria e identitaria dei nostri amici. Ma forse, speriamo, i giovani saranno meno cretini.


Torino, 17 novembre 2011

domenica 20 novembre 2011

BERLUSCONEIDE 

Considerazioni storiche e politiche dopo la caduta di Berlusconi.





di Costanzo Preve



1. Una premessa. Scrivo queste considerazioni su esplicito invito di amici, francesi e greci, interessati ad avere una mia analisi strutturale, e non solo pettegola o episodica, sulla caduta di Berlusconi. Caduta certo non ancora formalizzata, ma io credo irreversibile. Ed irreversibile non certamente perchè causata da tre fattori a mio avviso poco rilevanti (ceto po­litico professionale ex-comunista ed ex-cattolico democristiano, circo mediatico asservito alle strategie oligarchiche del grande capitalismo finanziario g1obalizzato, magistratura politicizzata anti-berlusconiana). Poco rilevanti sono stati anche gli scandali, le prostitute, i sorrisini di Merkel e Sarkozy, e tutto il ciarpame sollevato da quell’autentico scandalo culturale e giornalistico chiamato “La Repubblica”, incrocio fra la componente borghese laica ex-azionista e la componente “picista”, che con tutta la mia buona volontà non intendo connotare con il glorioso anche se discusso nome di “comunista”.


Partirò quindi da un fattore tutto sommato secondario come il berlusconismo, ma arriverò presto al vero ed unico problema storico che ci sta dietro, l'adeguamento e poi la sparizione del modello europeo di capitalismo verso un unico modello anglosassone di capitalismo totale. Prego il lettore di prestare attenzione a questa tesi finale, perche tutto quanto c‘è prima è solo gli “antipasti”, le “tapas” per dirla in spagnolo.






2. Il giorno 5 novembre 2011 il Canale La Sette ha trasmesso in prima sera­ta, modificando la programmazione prevista, un film su Berlusconi intitola­to BERLUSCONI FOR EVER. Si tratta di una sintesi del come per circa vent'anni l’intera classe dirigente italiana ed i suoi intellettuali, dall’italianista Asor Rosa al comico Benigni hanno visto Berlusconi. Ecco perchè conviene partire da lì. In sintesi, evidenzierei quattro temi in ordine di importanza:


(1) Berlusconi appare come un megalomane in preda ad un compulsivo deli­rio di onnipotenza patologica, una sorta di piazzista e di venditore di tappeti levantino autoreferenziale, che crede che la propria “verità” sia anche l’unica verità. Il riferimento è al vecchio giornalista vate della borghesia italiana, Indro Montanelli, esempio di passaggio e di “riciclaggio” in tempo reale dal fascismo al regime dopo il 1945. Non a caso il suo successore, il sionista fanatico Travaglio, è diventato per un ventennio l'idolo della sinistra anti-berlusconiana.


(2) Berlusconi appare come il portatore dei difetti atavici degli italia­ni, primo dei quali sarebbe la sostituzione della furbizia all’intelligenza. Il suo “successo” (qui si ripete l’interpretazione di Piero Gobetti sulle ragioni del successo di Mussolini) appare dovuto proprio al fatto che ha incarnato la parte peggiore della tradizione antropologico-sociale italiana.


(3) Viene continuamente suggerito un fatto non provato, ma dato assolutamente per scontato dall'italiano medio di “sinistra”, il fatto che Berlusco­ni abbia fondato il suo impero economico, prima da costruttore e poi da magnate dei media, riciclando alla grande denaro di provenienza mafiosa. Ma il piazzista è ora diventato inaffidabile. Il piazzista non può per venti anni dare “bidoni”.


(4) Berlusconi appare portatore della vecchia ipocrisia cattolica italia­na. Da lato puttaniere impenitente, adultero manifesto, laido organizza­tore di festini con adolescenti ambiziose, e dall'altro cattolico fervente che faceva la comunione tutte le domeniche.


Potremo continuare ma è chiaro che un simile personaggio da commedia dell'arte è troppo ghiotto per non attirare l'attenzione di quella che è stata battezzata “opinione pubblica”, la cui completa sparizione era stata peraltro diagnosticata da Habermas quando era ancora sotto il controllo di Adorno. Tutto questo, ovviamente, è vero, non mi sogno assolutamente di negarlo. Ritengo però che sia solo la superficie, e si è detto che la “scienza” sarebbe inutile se la superficie e la profondità coincidessero. E allora indaghiamo prima la superficie e poi la profondità.


3. Partiamo prima dall’ideologia anti-berlusconiana, durata parossisticamente in Italia quasi un ventennio. Si tratta, per usare un termine del filo­sofo-economista althusseriano francese Charles Bettelheim, di una vera e propria “formazione ideologica”. Essa è a mio avviso il prodotto della fu­sione di due elementi distinti ma intercorressi:


(1) L’origine risale ai primi anni Venti, e fu proposta per la prima volta dal saggista torinese Piero Gobetti. Il popolo italiano soffrirebbe di una grave carenza morale complessiva, dovuta in primo luogo alla mancata riforma protestante (non importa se luterana o calvinista, ma meglio cal­vinista in quanto individualistica, borghese-capitalistica e soprattutto inglese ed anglofila), ed in secondo luogo al carattere ristretto ed elitario del risorgimento (il “risorgimento senza eroi”). II secondo punto a mio avviso è inesatto, e rimando ad un recente ottimo testo pubblicato in 1ingua francese (cfr. Yves Branca , Le risorgimento au coeur de l’Euro­pe), che corregge in buona parte questa visione unilaterale.


L’idea degli italiani come popolo delle scimmie e del risorgimento senza eroi ha nutrito, in particolare dopo il 1945, 1’ala “azionista” della cultura borghese italiana, ansiosa di “scaricare” il fascismo sui difetti atavici degli italiani, per poter così far dimenticare le dirette responsabilità del grande capitale italiano, che abbandonò il fascismo soltanto nell'an­no della sua sconfitta evidente (l943). Si trattava di una ala anglofila, empirista in filosofia e quindi nemica soprattutto dell’idealismo e dunque di Hegel.Questa posizione, assolutamente minoritaria nel popolo ita­liano, era però assolutamente maggioritaria nel mondo degli intellettuali. Ed a proposito degli intellettuali, categoria con la quale chi scrive non vuole avere assolutamente niente a che fare, ricordo la posizione anticipatrice espressa più di un secolo fa da Georges Sorel, che a mio avviso Bourdieu ha saputo sistematizzare bene, quando definisce gli intel­lettuali come gruppo sociale (e non come insieme eterogeneo di individua­lità diverse), come una sezione dominala della classe dominante. Lo ripeto per chi se lo fosse lasciato scappare: una sezione dominata della classe dominante, non certo i “portatori” della visione del mondo dei do­minati.


(2) La seconda componente risulta geneticamente dalla riconversione ideolo­gica del picismo italiano, che mi rifiuto di chiamare “comunismo” per le ragioni esposte in precedenza. Questo enorme rinoceronte sociologico ed antropologico aveva già gestito fra il 1956 ed il 1962 il passaggio dal modello sovietico alla cosiddetta “via italiana al socialismo”, che copriva una integrazione strutturale nei meccanismi riproduttivi del sistema ca­pitalistico italiano, e poi dal l976 al 1982, dopo la presa in giro mediatica del cosiddetto “eurocomunismo”, il passaggio dal partito della critica al capitalismo al partito degli “onesti”, contrappasso ovviamente ai “disonesti” (prima il socialista Bettino Craxi e poi ovviamente Berlusconi, in quanto suo presunto erede). Dopo il triennio 1989-1991 il bestione so­ciologico ed antropologico dovette riconvertirsi alle nuove condizioni storiche aperte dalla dissoluzione del comunismo storico novecentesco (19I7-1991) il solo ed unico comunismo “pratico” mai esistito, essendo restati tutti gli altri mere petizioni morali alternative oppure gruppi di testimonianza settaria, sia pure pieni di “buone intenzioni”. Si tratta di un'azienda che produce scarpe e che dopo un'alluvione è obbligata, per non uscire dal mercato, a produrre pinne e stivali di gomma per alluvio­nati.


Il riciclaggio di questi cialtroni fu fatto talmente bene che essi riusci­rono a portarsi dietro gran parte della loro precedente clientela fideliz­zata identitaria, nella forma del serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD. In proposito, l’antiberlusconismo fu provvidenziale perché permise una rapida e performativa sostituzione alla identità precedente. Il serpentone meta­morfico fu sempre in primo piano per appoggiare attivamente tutte le strategie di guerra USA-NATO, dal Kosovo nel l999 (D'Alema) alla Libia 2011 (Napolitano).


L'unione di questi due elementi fecero sì che l’antiberlusconismo fosse veramente provvidenziale.






4. Non vorrei che sorgessero spiacevoli equivoci. Io considero Berlusco­ni, come figura umana, culturale, storica e politica un ripugnante cialtrone, ed in questo non mi distinguo affatto (purtroppo) dall'anti-berlusconiano medio. Ma insisto sul fatto che rifiuto la koinè pittoresca ed estetica del riciclaggio delle classi dominanti italiane, per cui Berlusconi, lungi dall’esserne stato il rappresentante, è stato piuttosto un “incidente di percorso”. Un incidente di percorso? Certamente. Vediamo come.






5. Per usare un lessico militare, Berlusconi fu un “incidente di percorso”, o più esattamente un “danno collaterale” di Mani Pulite, che fu nella sua fun­zione storico-politica oggettiva (e non nella sua rappresentazione ideolo­gica, che fu il teatrino della vittoria degli onesti sul cinghialone, porcone, corrottone Craxi, che la marmaglia plebea fanatizzata avrebbe voluto uc­cidere ed appendere per i piedi, come Mussolini) un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, il cui scopo fu quello di sostituire un modello di stato neo-liberale privatizzato al precedente modello di stato, certamente corrotto, ma anche e soprattutto assistenziale-keynesiano. In onesta sede è del tutto irrilevante se gli agenti storici che propiziarono questo passaggio ne fossero pienamente consapevoli, o pensassero di agire spinti dalla morale kantiana e dal “senso dello stato”. Ciò che conta furono i risultati politici “oggettivi”.


E' del tutto chiaro che la decapitazione dell'intera classe politica di provenienza DC, PSI, PSDI, PRI, PLI non eliminava anche automaticamente il loro bacino elettorale, che restava praticamente intatto, e che non intendeva


accettare la facile presa del governo da parte del PCI riciclato. Ci voleva però qualcuno che avesse la forza economica e l'iniziativa politica per impedire tutto questo, e fu appunto Berlusconi, indipendentemente dalle sue caratteristiche antropologiche o dalla probabile origine mafiosa del suo denaro.


Questa è la genesi del fenomeno Berlusconi. Naturalmente la cultura detta di “sinistra” non poteva accettare questa semplice realtà,ed è allora chia­ro che dovesse attivare il teatrino dei vizi atavici degli italiani, popolo delle scimmie manipolato dalla televisione del Grande Corruttore e della sua corte di puttane, attricette, intellettuali falliti oppure con il “dente avvelenato” verso il PCI (pensiamo al notevole filosofo ex-marxista Lucio Colletti).


Si apriva così il teatrino identitario del Partito B e del Partito Anti-B, che hanno soffocato per un ventennio il nostro povero paese pri­vato di sovranità politica e geopolitica.


Ma ora cominciano, caro lettore, le analisi serie, cui ti chiedo di presta­re un'attenzione particolare.


6. Non dimentichiamoci dunque del punto da cui siamo partiti: Berlusconi ha dovuto andarsene, chiudendo un intero ciclo politico che essendo stato ventennale è anche stato un ciclo storico, non certo perchè cacciato dal buon gusto snobistico degli intellettuali alla Eco-Baricco, dal popolo urlante identitario PD, da Bersani e dai cooperatori emiliani, dai giornali­sti di “Repubblica” e dalle loro “dieci domande”, dai magistrati milanesi, dal­le puttanelle ricattatrici di Ancore, dai suoi vizi di vecchio satiro solo nella vecchiaia incombente, eccetera; Berlusconi è stato cacciato dalla grande finanzia internazionale, e da nient'altro, perchè non ha saputo, potuto o voluto sincronizzare l'intera Italia (anzi, 1’azienda-Italia) al ritmo della nuova forma egemonica del capitalismo imperialistico neoliberale e globalizzato. Non facciamoci scappare questa dato storico, che implica un radicale riorientamento gestaltico rispetto alle fole ed alle panzane con cui ci ha rintronato per un ventennio il coro politico, mediatico ed intellettuale, prevalentemente di “sinistra”, ma non solo. Cerchiamo allora di arrivare a questo riorientamento gestaltico mediante alcuni passaggi, non troppo nume­rosi per non confondere le menti intorpidite dallo spettacolo di manipola­zione dell'ultimo ventennio. Ecco i passeggi principali: (l) La fine del comunismo storico novecentesco veramente esistito (19I7-1991), che non aveva assolutamente nulla a che fare con le ipotesi filosofiche e scientifiche ottocentesche di Marx e con l’originario progetto nove­centesco di Lenin, è stata una catastrofe storica e geopolitica terribile, incondizionatamente negativa, una vera tragedia, accolta con gridolini di entusiasmo dalla emulsione culturale più stupida dell'intera galassia, la cosiddetta “sinistra”. Questa fine ha propiziato, anche se non direttamente causato (1e cause profonde erano già interne alla dinamica illimitata di riproduzione nel modo di produzione capitalistico) il successo evolutivo darwiniano del modello anglosassone-americano di capitalismo sul precedente modello europeo. (2) Fino a qualche tempo fa si poteva dire grosso modo che c'erano tre di­versi tipi di capitalismo; il capitalismo anglosassone americano, interamen­te privatizzato; il capitalismo europeo, frutto di un compromesso detto a volte impropriamente keynesiano-fordista , che veniva sia dall'alto (Bismarck, De Gaulle, eccetera), sia dal basso (laburismo, sindacalismo, movimento operaio organizzato); il capitalismo cinese, derivato da una storia particolare, che potremmo riassumere in due punti, eredità del modo di produzione asiatica (e quindi non occidentale, prima schiavistico antico e poi feudale-signorile) e di una accumulazione primitiva collettiva del capitale di tipo maoista, con precedenti nella storia cinese (Wang Mang, rivolte contadine, riformismo Ming, Taiping, eccetera). (3) Stiamo assistendo all'intera assimilazione del modello europeo, e cioè alla sua fine, nell'unico modello anglosassone-USA, frutto di un tradi­mento storico delle classi dirigenti europee, americanizzate linguisticamente e culturalmente. Questo non avviene attraverso la vecchia ed obsoleta dicotomia Destra/ S inistra, difesa per interesse dal ceto politico pro­fessionale e per stupidità dal ceto intellettuale identitario e tifoso, ma attraverso la vittoria del partito degli economisti (PE) sul partito del po­litici (PP). (4) Di conseguenza, e per finire, Berlusconi non ha potuto, saputo e voluto effettuare questo passaggio, nonostante la sua natura di pescecane capita­lista liberale lo spingesse soggettivamente a propiziarla, per il sempli­ce fatto che era pur sempre legittimato elettoralmente ed una legittima­zione elettorale non può consentirlo, per il fatto che i tacchini non pos­sono votare il loro assenso al cenone di Natale, che prevede la loro messa in pentola. Il CHE FARE? -e ci arriverò brevemente alla fine- non può quindi essere pen­sato nelle forme della vecchia dicotomia Destra/ Sinistra, sempre più protesi manipolatoria di adattamento di masse atomizzate e babbionizzate dal circo politico, dal circo mediatico e dal circo intellettuale tradizionale. Vediamo le cose con ordine.






7. La prima operazione teorica da fare è un riorientamento gestaltico globa­le rispetto al bilancio storico-politico del socialismo reale, che preferisco chiamare “comunismo storico novecentesco” (CSN), per distinguerlo dal comuni­smo utopico-scientifico (l’ossimoro è intenzionale) di Marx, assolutamente inapplicabile perchè basato su previsioni storiche inevitabilmente non cor­rette (in sintesi: incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive; capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria; entrambe le ipotesi totalmente falsificate dalla storia rea­le).


La “sinistra”, questa emulsione culturale intellettuale confusionaria, che Georges Sorel fu il primo a diagnosticare precocemente, ha in proposito sviluppato per quasi un secolo il teatrino della contrapposizione: in URSS c’è il socialismo oppure in URSS non c'è il socialismo? Risparmio al letto­re tutti gli argomenti pro e contro (staliniani, trotzkisti, neolinerali, bordighisti, eccetera), che richiederebbero mille pagine per la loro sempli­ce elencazione, e di cui sono uno specialista. Ma il problema URSS (e paesi fantoccio divorati alla fine della seconda guerra mondiale) è molto più semplice, perchè è storico e geopolitico, e lo formulerò sommariamente così: indipendentemente dal suo essere un esperimento artificiale di eguagliamento sociale livellatore sotto cupola geodesica protetta (protetta da un indispensabile dispotismo partitico operaio, in quanto senza coercizione dispotica la classe operaia e proletaria non potrebbe neppure gestire una bocciofila, altrochè una “transizione al comunismo”!), i1 sistema so­cialista degli stati “comunisti” (l’unico comunismo storicamente esistito, non certo le elucubrazioni snobistiche del salotti romani o l'agitarsi scomposto degli operai fondisti con i loro fischietti ed i loro tamburi) ha influenzato direttamente la storia del capitalismo, limitandone in parte (in greco antico si dice katechon) la sua tendenza illimitata ad assumere una forma pura, che nella mia personale periodizzazione filosofica del capitalismo definisco “speculativa”, con una terminologia tratta liberamente dalla Scienza della Logica di Hegel. Dunque, indipendentemente dal suo dispotismo e dal carattere miserabile del suo personale politico (i comunisti nichilisti, opportunisti, autofagi e straccioni) viva viva viva il comunismo storico novecentesco e tragedia im­mane il fatto che non si sia voluto, saputo o potuto riformare “in corso d’opera”, come avevano auspicato i più grandi intellettuali marxisti indipendenti del Novecento (Lukàcs, Gramsci, Bloch, eccetera, alla cui scuola mi sono formato, mentre ho sempre avuto ripugnanza ed estraneità per il circo intellettuale snobistico italiano detto di “sinistra”). Dunque TRAGEDIA, TRAGEDIA, TRAGEDIA.






8. Il capitalismo già ai tempi Reagan-Thatcher stava cambiando forma, e quindi prima della caduta catastrofica del baraccone socialista. Le ra­gioni del mutamento erano interne alla dinamica del modo di produzione, ed erano dettate dalla cosiddetta globalizzazione e dalla privatizzazione di tutto ciò che era privatizzabile. Sono gli animal spirits di cui hanno parlato gli economisti inglesi, e che Hegel in altro contesto definì “il regno animale dello spirito”, la definizione più geniale di capitalismo che abbia mai letto in vita mia.


Il teatro storico degli ultimi venti anni è quindi stato nell’essenziale quello di un assalto del modello americano di capitalismo contro il modello europeo, che non avrebbe avuto tanto successo senza il mantenimento dell'occupazione militare USA sull'Europa, iniziata nel l943-1945 e mai terminata, neppure dopo il 1991, anzi ampliata e rafforzata. Non c’è democrazia ad Atene con guarnigione spartana sull’Acropoli. Non ci può essere democrazia in Europa con basi militari atomiche USA in Europa. Si tratta di una semplice verità lapalissiana, che la “sinistra” ha contribuito ad occultare, con la retorica strumentale sulla Costituzione, con il proseguimento maniacale dell'antifascismo in completa, palese e totale assenza di fascismo, con l'agitare scomposto del termine “democrazia” in presenza di irrilevanti parate sindacali, femministe, ecologiste, pacifiste, ed in Ita1ia ossessivamente anti-berlusconiane. A proposito della Cina, sono un incondizionato sostenitore della sua forza geopolitica e militare, ma non mi raccontino (Losurdo, Diliberto, Sidoli, KKE greco, eccetera), che si tratta di “socialismo”, sia pure di mercato, ecce­tera. Considero la Cina completamente capitalistica, in quanto considero storicamente fallito ed esaurito l'intero modello del comunismo storico novecentesco (salvo invece il “comunismo” -sia ben chiaro- come filosofia della storia e come tendenza metastorica dell'umanità, ed in questo senso sono sempre più che mai “comunista”). Si tratta però di un capitalismo sorto da una combinazione originale del modo di produzione asiatico, caratterizzato da una forte e benefica dominanza del potere politico sull’economia, e di una esperimento egualitario estremistico maoista, sia pure fallito. Spero che l'apparato confuciano denominato partito comunista cinese continui ad iso­lare e neutralizzare, se possibile con mezzi civili ed umanistici, gli orrendi intellettuali filo-occidentali e le tendenze americanizzanti. Se queste ul­time si affermassero, magari sotto lo scudo dei diritti “umani” (la forma rovesciata della disumanità contemporanea), allora ci sarebbe uno ed un solo orribile modello di capitalismo. Sarebbe questa la vera globalizzazione politica, che per il momento non c’è ancora, al di là dei voleri della strega Clinton (ricordo il suo WOW (uau) televisivo oscenamente ostentato alla notizia del linciaggio di Gheddafi).


9. E quindi Berlusconi non ha potuto, saputo o voluto (a mio avviso lo avrebbe voluto, ma non ha potuto per il fatto che doveva pur sempre essere eletto, ed il popolo, al di là delle sue irrilevanti e confuse opinioni politiche, non può votare per la propria macelleria sociale) effettuare questa america­nizzazione. Essa presuppone il commissariamento integrale da parte non di una parte politica (destra contro sinistra o sinistra contro destra), ma di un partito degli economisti (Papadimos in Grecia, Monti in Italia, ma so­no tutti uguali -inglese perfetto e monoteismo del mercato) contro il partito dei politici.


Se utilizzassi la dicotomia Destra/ Sinistra (ma me ne guardo bene!) direi che il partito degli economisti è un partito di estrema destra, che si posiziona alla destra di Forza Nuova e di Attila, re degli Unni. Ma i mutamenti semantici propiziati dal ceto intellettuale dell’ultimo ventennio (ah, ombra di Sorel, dove sei?) ha associato la sinistra soltanto alle gesticolazioni irrilevanti della FIOM, alla retorica di Vendola, ai matri­moni gay, alla insistita polemica laico-radicale contro la chiesa cattolica e Ratzinger, alle sfilate femministe (ah, le donne, le donne!), al belare ostensivo pacifista (pacee, pacee, diritti umanii, diritti umanii, abbasso i dittatori, processate Gheddafi, Milosevic, Saddam Hussein, tutti meno la Clinton ed Obama, eccetera).


10. Che fare? Non lo so. Non sono mica Lenin! In prima approssimazione, ed in via preliminare, che cosa non fare:


(1) Smettere di fare partitini comunisti (Diliberto, Ferrero), attaccati alle mutande di Vendola e Bersani pur di poter rientrare in Parlamento, oppure di fare partitini a base settaria che ripropongono programmi sumeri, egizi ed assiro-babilonesi (Ferrando).


(2) Andare oltre la dicotomia obsoleta Destra/ Sinistra. Questo capitali­smo distrugge i popoli e le comunità, non solo le classi svantaggiate (anche se ovviamente anche queste). Ritrovare il linguaggio adatto per salvare i popoli e le comunità è impossibile sulla base della divisione settaria del popolo in popolo in destra e popolo di sinistra. Questa divisione c'è storicamente stata, e non mi sogno affatto di negarlo. Ma oggi è obsoleta, e viene reintrodotta dall'alto per via manipolatoria, utilizzando strati identitari sedimentati in basso nell'ultimo secolo. (3) Uscire da questa Europa. Se ci fossero possibilità reali di riformare l’Europa dall'interno in corso d'opera, non direi questo, ma mi unirei alla stragrande maggioranza dei “sinistri” riformatori che vogliono una Europa “diversa”. E tuttavia costoro non sono in grado di andare oltre le loro pie intenzioni soggettive. Le oligarchie reali che dirigono questa Europa (e non il sogno di Erasmo, Mazzini o Spinelli) vogliono fortemente la sua americanizzazione (modello anglosassone di capitalismo illimitato privatizzato), la sua sottomissione geopolitica agli USA (NATO, interventi in Kosovo 1999, in Afganistan 2001, in Irak 2003, in Libia 2011, domani chissà), 1’uniformità culturale occidentalistica, insomma tutta la merda (non c'è altro termine!) che ci offre quotidianamente il sistema mediatico editoriale ed universitario.






11. E qui provvisoriamente finisco. So perfettamente che queste tre precondi­zioni sono assolutamente inattuabili a breve termine, e sospetto anche a medio termine. I “sinistri” vocianti continueranno a proporre inutili ed irrilevanti partitini comunisti o di tipo consociativo antiberlusconiano (Diliberto, Ferrero) o di tipo settario-paleolitico (Ferrando), o semplici ap­pendici della cultura femministico-ecologista post-moderna (Sinistra Critica). Non c’è niente da fare.


Continuerà l’illusione di potere alla fine, magari cambiando le maggioranze elettorati, modificare la natura neoliberale assoluta di questa Euro­pa. Chi nutre questa illusione non capisce o non vuol capire per opportunismo, pigrizia, stupidità o boria intellettuale, che siamo di fronte ad un processo storico, e non solo politico congiunturale. Lo storicismo ed il mito del progresso lineare irreversibile sparso a piene mani nell'ultimo mezzo secolo dalle canaglie dei gruppi intellettuali comunisti degenerati hanno abituato la gente a pensare in termini ferroviari di Indietro/ avanti. Ma come, abbiamo fatto l’Europa, non possiamo mica andare Indietro! Biso­gna andare Avanti!


In realtà, nella storia non c’è un avanti ed un indietro. La storia è un luogo di prassi umana integrale, non di temporalità evoluzionistica in qualche modo prevedibile. La fine del berlusconismo è semplicemente una opportunità, che bisognerebbe saper cogliere per riorientare integralmente una intera cultura politica fallimentare.


Questa opportunità verrà colta? Sarei contento di poter lasciarmi andare ai soliti auspici generici ottimisti, del “pensare positivo”, ma purtroppo sono un allievo di Hegel e Marx, e non di Jovanotti o Celentano. Data la situazione attuale, ed il terribile potere di interdizione diretta o indiretta dei gruppi intellettuali italiani che conosciamo, non vedo nessuna possibilità di invertire la tendenza babbionizzante ed identitaria. I vele­ni dell’antiberlusconismo di “Repubblica” e del PD continueranno purtroppo a lungo, perchè sono strutturali, in quanto coprono ideologicamente una gi­gantesca tragedia storica. Vorrei poter promettere di più, ma per il momento siamo ancora alla fase dei preliminari dei preliminari. Per chi ha già la mia età è triste. In quanto ai giovani, chi vivrà vedrà.

domenica 13 novembre 2011

Ratzinger o Fra Dolcino?


Prefazione

Gesù di Nazareth, il “primo socialista”.

Le comunità politico-religiose degli esseni e di Qumran, basate entrambe su un modo di vita e produzione collettivistico.

Amos e Isaia, profeti “rossi” dell’Antico Testamento.


Fra Dolcino e T. Muntzer, rivoluzionari comunisti e cristiani.


Le organizzazioni “eretiche” cristiane, dagli eroici marcioniti agli anabattisti rivoluzionari della Comune di Munster, con la loro scelta di campo allo stesso tempo comunista e religiosa.
I cristiani per il socialismo, il cristiano-marxista Chavez. Boff e la teologia della liberazione, il socialismo indigeno di Evo Morales, ecc.


Pratiche plurimillenarie e proteiformi, concrete ed innegabili, su cui il materialismo storico “classico” si è confrontato e rapportato solo di sfuggita e con un certo imbarazzo, mentre invece richiedono sia un processo accurato di analisi che un criterio generale d’interpretazione e di comprensione, in grado di spiegare perché – a determinate condizioni – la religione si sia potuta e si possa tuttora trasformare in positiva, liberatoria e sovversiva “anfetamina dei popoli”.
Anche Engels, nella sua notevole opera “La guerra dei contadini in Germania”, riconobbe che l’azione del religioso, credente cristiano e rivoluzionario Thomas Muntzer era ispirato da principi- guida che come minimo si avvicinavano al comunismo, ma purtroppo da tale fatto innegabile, indiscutibile e testardo non derivò le necessarie conseguenze teoriche.
Risulta ormai necessario modificare una parte consistente dell’ormai consolidata analisi marxista sulla pratica religiosa, presa nella globalità: del resto “il vero è l’intero”, rilevava Hegel nella sua geniale “Fenomenologia dello Spirito”.[1]
Riteniamo ancora valido il nucleo fondamentale della valutazione espressa dal marxismo “classico” sia rispetto alla genesi della religione, da intendersi come il prodotto dell’azione umana (l’uomo ha creato le divinità, e non viceversa), che soprattutto per quanto riguarda la funzione concreta di “oppio dei popoli” svolta via via dalla religione in una sua particolare versione, quella fornita dagli apparati ecclesiastici collegati strettamente al potere politico e agli organi statali, a partire dalla teocrazia sumera (3700 a.C.) fino ad arrivare all’attuale gerarchia vaticana.
Ma il nucleo non è tutto e già nell’introduzione alla sua “Critica della filosofia del diritto di Hegel” Marx scrisse giustamente che “l’uomo crea la religione e non la religione l’uomo”, rilevando anche che la religione “è l’oppio dei popoli”, aggiunse anche che essa rappresenta “l’espressione della miseria effettiva e la protesta contro questa miseria effettiva”, e cioè il “sospiro della creatura oppressa”.
Oppio dei popoli, e allo stesso tempo “protesta contro la miseria”: una polarità di opposti molto interessante, ma poco studiata e compresa.
Della tradizionale concezione materialista rispetto alla religione molto bisogna conservare, a nostro avviso, ma quasi altrettanto bisogna modificare: per tanto si propongono quattordici tesi generali su questo tema, che formano l’ossatura fondamentale di questo libro.

Segue:  http://www.comunismoecomunita.org/?p=2887

giovedì 10 novembre 2011

Comunismo fra Idea e Storia

 

Comunismo fra Idea e Storia. Riflessioni a partire da Alain Badiou, Michael Hardt, Toni Negri e Gianfranco La Grassa.



di Costanzo Preve


1. Anziché perderci nel “piccolo cabotaggio” di piccole formazioni che si auto-certificano soggettivamente come “comuniste” (ma anche i matti si auto-certificano soggettivamente come reincarnazioni di Napoleone), ma devono mettere in primo piano le compatibilità delle leggi elettorali e l’identità pregressa dei loro potenziali militanti e simpatizzanti, che non devono essere in nessun caso “scandalizzati” con novità irricevibili (novità, come è noto, di cui si nutrono esclusivamente la scienza e la filosofia), conviene invece tornare ai “fondamentali”. Ed i “fondamentali”, per un comunista, sono l’idea e la pratica del comunismo. In proposito partirò da due soli libri recenti. Il primo (AAVV, L’ idea di comunismo, Derive e Approdi, d’ora in poi IDC) contiene molti con tributi, ma per brevità mi limiterò a quelli di Alain Badiou (Badiou, IDC), Michael Hardt (Hardt, IDC) e Toni Negri (Negri, IDC). Ce ne sarebbero anche altri di meritevoli e rilevanti, ma voglio concentrare la mia attenzione su pochi nodi tematici. Il secondo (cfr. Gianfranco La Grassa, Oltre l’orizzonte. Verso una nuova teoria dei Capitalismi, Besa, d’ora in poi GLG) concerne invece solo l’ultima opera di questo prolifico autore (da più di trent’anni mio amico personale al di là di divergenze radicali sullo statuto filosofico “umanistico” o meno della teoria di Marx), che però riassume mirabilmente un serissimo processo di pensiero.

Segue: http://www.comunismoecomunita.org/?p=2879

martedì 8 novembre 2011

Il Fronte di Liberazione della Libia si organizza nel Sahel




Franklin Lamb, ai margini del Sahel, Niger

“Sahel” in arabo significa “costa” o “litorale“. Sebbene fosse presente 5000 anni fa quando, secondo gli antropologi, le prime colture del nostro pianeta iniziarono allora a lussureggiare in questa regione, oggi semi-arida, dove le temperature raggiungono i 50 gradi, e solo i cammelli e un assortimento di creature possono fiutare sorgenti d’acqua; sembra uno strano nome, per questo luogo geografico largo 450 miglia di sabbia cotta, che si distende dall’Oceano Atlantico al Mar Rosso.
Eppure, stando in piedi lungo il bordo, il Sahel ha l’aspetto di una sorta di linea costiera che demarca le sabbie infinite del Sahara dall’erba della savana, a sud. Parti di Mali, Algeria, Niger, Ciad e Sudan, lungo tutto il confine con la Libia, rientrano in questa supposta terra di nessuno. Oggi il Sahel sta fornendo protezione, raccolta e depositi di armi, campi di addestramento, nascondigli, così come una formidabile base generale per coloro che lavorano per organizzare il crescente Fronte di Liberazione Libico (LLF). Lo scopo del LLF è liberare la Libia da quelli che sono considerati dei burattini coloniali insediati dalla NATO.
La regione del Sahel è solo una delle diverse posizioni che stanno diventando attive, mentre la controrivoluzione libica, guidata dalle tribù Wafalla e Gadahfi, si prepara per la prossima fase della resistenza.
Quando sono entrato in una sala conferenze in Niger, recentemente, per incontrarmi con alcuni sfollati dalla Libia, fui avvertito che stavano preparandosi a lanciare una “lotta popolare, impiegando la tattica maoista dei 1000 tagli“, contro il gruppo attuale che sostiene di rappresentare la Libia, due fatti mi hanno colpito.
Uno era quanti fossero i presenti, che non sembravano trasandati, troppo zelanti o disperati, ma che erano normalmente riposati, calmi, organizzati e metodici nel loro comportamento. Il mio collega, un membro della tribù di Sirte dei Gheddafi, ha spiegato: “Più di 800 organizzatori sono arrivati dalla Libia solo in Niger, e molti altri ancora giungono ogni giorno“. Un ufficiale in uniforme ha aggiunto: “Non è come i vostri media occidentali presentano la situazione, di disperati fedelissimi di Gheddafi che freneticamente distribuiscono fasci di banconote e lingotti d’oro per comprare la propria sicurezza dalle squadre della morte della NATO, che ora brulicano nelle aree settentrionali della nostra patria. I nostri fratelli controllano le strade sconfinate di questa regione da migliaia di anni, e sanno di non essere rilevati neanche dai satelliti e dai droni della NATO.“
L’altro argomento a cui ho pensato, mentre mi sono seduto per un primo incontro, era la differenza che tre decenni possono fare. Mentre me ne stavo lì, ho ricordato la mia visita con l’ex leader della gioventù di Fatah, Salah Tamari, che aveva fatto un buon lavoro nel campo di prigionia israeliano ad Ansar, nel sud del Libano, durante l’aggressione del 1982, come negoziatore eletto dai suoi compagni. Tamari insisteva per fare entrare alcuni di loro nella nuova base dell’OLP, a Tabessa, in Algeria. Questo fu poco dopo che la leadership dell’OLP, erroneamente a mio giudizio, accettasse di evacuare il Libano nell’agosto del 1982, piuttosto che ingaggiare una difesa alla Stalingrado (certamente meno attesa di una inesistente Armata Rossa) e la leadership dell’OLP apparentemente accreditò le promesse dell’amministrazione Reagan di “uno Stato palestinese, garantito dagli americani entro un anno. Potete prenderlo alla banca“, secondo le parole dell’inviato statunitense Philip Habib. Apparentemente fiducioso verso Ronald Reagan per una qualche ragione, il leader dell’OLP Arafat mantenne la promessa scritta da Habib nel taschino della camicia, per mostrarlo ai dubbiosi, tra cui il suo vice, Khalil al-Wazir (Abu Jihad), e le donne, tra gli altri, dello Campo di Shatila, che avevano qualche perplessità verso i loro protettori, che li lasciavano partendo.
A Tabessa, da qualche parte nel deserto algerino, i già orgogliosi difensori dell’OLP erano essenzialmente inattivi e ingabbiati nel campo e, a parte alcune sessioni di allenamento fisico, si ritrovarono a trascorrere le loro giornate a bere caffè e a fumare, e a preoccuparsi per i loro cari in Libano, quando la notizia del massacro di Sabra e Chatila, organizzato da Israele nel settembre 1982, cadde sul campo di Tabessa come una enorme bomba, e molti combattenti respinsero gli ordini di Tamari e partirono per Shatila. Questo non è il caso degli sfollati libici in Niger. Hanno telefoni satellitari di ultimo modello, computer portatili e attrezzature migliori della maggior parte delle ricche agenzie di stampa che si presentavano negli alberghi dei media di Tripoli, negli ultimi nove mesi. Domanda di questo osservatore, “come avete fatto tutti ad arrivare e dove ti sei procurato tutte queste nuove attrezzature elettroniche, così in fretta?” mi è stato risposto con un sorriso muto e una strizzatina d’occhio da una ragazza con l’hijab, che avevo visto l’ultima volta ad agosto, mentre distribuiva comunicati stampa a Tripoli, all’Hotel Rixos, del portavoce libico, dottor Ibrahim Musa, a fine agosto scorso.



In quel giorno particolare, Musa stava dicendo ai media mentre era accanto al viceministro degli esteri Khalid Kaim, un amico di molti statunitensi e attivisti dei diritti umani, che Tripoli non sarebbe caduta in mano ai ribelli della NATO e che “abbiamo 6500 soldati ben addestrati, che sono in attesa di loro“. Come si è scoperto, il comandante dei 6500 era dalla parte della NATO ed istruì i suoi uomini a non opporsi alle forze ribelli che entravano. Tripoli cadde il giorno dopo, e il giorno dopo Khalid venne arrestato ed è ancora all’interno di una delle decine di carceri dei ribelli, mentre ci si appella ai suoi rapitori che non rispondono alle visite dei familiari, e mentre una team di legali internazionali, organizzato dagli statunitensi, sta negoziando una visita.
La LLF ha progetti militari e politici in corso. Una di questi è competere per ogni voto alle elezioni promesse per la prossima estate. Un membro dello staff che ho incontrato, ha il compito di studiare le elezioni in Tunisia, Egitto e altrove nella regione, per possibili applicazioni in Libia. Un altro comitato del LLF sta mettendo insieme una campagna di messaggi nazionalisti, più altre azioni specifiche per la campagna elettorale dei propri candidati, e per creare liste di raccomandazioni per i singoli candidati. Nulla è ancora deciso con certezza, ma un professore libico mi ha detto “di sicuro i diritti delle donne saranno un importante pilastro. Le donne sono inorridite dal presidente del CNT Jalil, che ha detto, cercando il sostegno di al-Qaida, che minaccia di controllare la Libia, che la poligamia è il futuro della Libia e che le donne resteranno a casa, se divorziate. La Libia è stata molto progressista nei diritti delle donne, come nei diritti dei palestinesi.” Aisha Gheddafi, l’unica figlia di Muammar, che ora vive nella vicina Algeria con i membri della famiglia, tra cui il suo bambino di due mesi, fu una forza importante nella promulgazione del 2010, al Congresso del Popolo, di maggiori diritti per le donne. Le è stato chiesto di scrivere un opuscolo sulla necessità di conservare i diritti delle donne, che sarà distribuito se le elezioni del 2012 effettivamente si concretizzeranno.
Mentre il loro paese è in sostanziale rovina, per i bombardamenti della NATO, il LLF pro-Gheddafi ha alcuni importanti vantaggi dalla sua parte. Uno sono le tribù che, durante la scorsa estate, hanno iniziato a opporsi alla NATO, mentre Tripoli cadeva prima che avviassero i loro sforzi che includevano una nuova Costituzione. Il LLF crede che le tribù possano essere fondamentali per ottenere il voto. Forse, una freccia anche più potente, nella faretra del LLF, mentre lancia la sua controrivoluzione, sono i 35 anni di esperienza politica dalle centinaia di Comitati del Popolo libici, da tempo stabilitisi in ogni villaggio in Libia, insieme ai Segretariati delle Conferenze del Popolo. Mentre attualmente sono inattive (messe al bando dalla NATO, a dire il vero) si stanno rapidamente raggruppando.

A volte, soggetti al ridicolo da parte di alcuni sedicenti “esperti” della Libia, i Congressi del Popolo, basati sulla serie di libri verdi scritta da Gheddafi, sono in realtà molto democratici e uno studio del loro lavoro rende chiaro che essi hanno sempre più funzionato non come semplici timbratori delle idee che uscivano dalle mura della caserma Bab al-Azizyah. Un segretario generale di uno dei Congressi, ora lavora in Niger, ha ripetuto ciò che a una delegazione occidentale è stato detto, alla fine di giugno, nel corso di una conferenza di tre ore presso la sede di Tripoli della Segreteria nazionale dei Comitati Popolari. Ai partecipanti furono mostrati le presenze e le votazioni, nonché ogni articolo votato, nel decennio passato, ed i verbali dei dibattiti del Congresso del popolo più recenti. Illustravano le somiglianze tra un Congresso del Popolo e il New England Town Meeting, in termini di popolazione locale che prende decisioni che riguardano la comunità, e un ordine del giorno aperto, in cui i ricorsi e le nuove proposte potessero essere fatte e discusse.
Questo osservatore, ha particolarmente apprezzato nei suoi 4 anni di rappresentante del Ward 2A di Brooklin, al Massachusetts Town Meeting, mentre al college di Boston, a volte sedeva accanto ai suoi vicini Kitty e Michael Dukakis. Sebbene entrambi abbiamo vinto un seggio alle elezioni, ho ricevuto 42 voti in più di Mike, ma lui è risorto politicamente, mentre si può dire che io sono affondato, seguendo i miei incontri con la Students for a Democratic Society (SDS), l’ACLU e le Pantere Nere, tutti in un semestre, quale studente dell’Università di Boston, a seguito di uno stimolante incontro con i professori Noam Chomsky e Howard Zinn, nell’ufficio di Chomsky al MIT.


I dibattiti del Town Meeting erano interessanti e produttivi e “Mustafa“, il Segretario Nazionale dei Congressi del popolo libico, che ha studiato alla George Washington University di WDC, e ha scritto una tesi di laurea sul New England Town Meeting, sosteneva che il suo paese ha modellato i suoi Congressi popolari su di essi. Purtroppo, “Mustafa” è anche lui, oggi, in carcerato dal CNT, secondo amici comuni.
Quali saranno i candidati del LLF alle elezioni, in realtà non è noto, ma alcuni suggeriscono che il Dr. Abu Zeid Dorda, che ora si sta riprendendo dal suo “tentativo di suicidio” (l’ex ambasciatore libico alle Nazioni Unite è stato gettato da una finestra al secondo piano, durante gli interrogatori del mese scorso, dagli agenti della NATO, ma lui è sopravvissuto di fronte a dei testimoni, così è ora ricoverato in reparto medico del carcere). Contrariamente alle storie dei media, Saif al-Islam non è sul punto di consegnarsi alla Corte penale internazionale e, come Musa Ibrahim, sta bene. Entrambi sono stati sollecitati a tenere un profilo basso, per ora, a riposare e a cercare di curare i familiari e i molti amici stretti delle vittime della NATO. Molti analisti giuridici e politici, pensano che la ICC non procederà in relazione alla Libia, per motivo delle contorte regole e struttura dell’ICC, e per l’incertezza nell’assicurare l’arresto dei sospetti ‘giusti’.
Qualunque cosa accada su questo argomento, se il caso va avanti, i ricercatori si prepareranno a riempire il tribunale dell’ICC con la documentazione sui 9 mesi di crimini della NATO, per le sue 23.000 sortite e i suoi 10.000 bombardamenti sui 5.000.000 di abitanti del paese. Alcuni osservatori della Corte penale internazionale sono incoraggiati dall’impegno di questa settimana del Procuratore del CPI, come riportato dalla BBC: “a indagare e perseguire eventuali reati commessi sia dai ribelli che dalle forze pro-Gheddafi, comprese quelli eventualmente commessi dalla NATO.”
Come vittima dei crimini della NATO, che il 20 giugno 2011 ha perso quattro dei suoi familiari, tra cui tre bambini piccoli, mentre cinque bombe MK-83 della NATO venivano sganciate bombe e due missili statunitensi sparati, sul compound di famiglia, in un fallito attentato contro il padre, un ex assistente del colonnello Gheddafi ha scritto a questo osservatore, ieri, dal suo rifugio segreto, “Questa è una buona notizia, se è vera“.
Mentre la NATO sposta la sua attenzione e i suoi droni sul Sahel, è possibile che i suoi nove mesi di carneficina contro questo paese e questo popolo, alla fine, non raggiungeranno i loro obiettivi.

Franklin Lamb, Information Clearing House,  4/11/2011

lunedì 7 novembre 2011

La questione nazionale e la prospettiva della sinistra



conversazione con Spartaco Puttini
a cura di Mattia Nesti

Per tutte quelle realtà politiche e sociali che si pongono il problema di superare questo sistema economico, che valore assume la “questione nazionale”, anche in relazione alle esperienze di altri Paesi (pensiamo al Sudamerica) e alle continue interferenze in Italia della NATO, della BCE o del FMI? E quali implicazioni ha nella pratica politica quotidiana di un movimento che ambisce a liberare i lavoratori e le classi sociali deboli del Paese?

La questione nazionale assume grande rilevanza nell’attuale contesto storico, nell’attuale lotta contro l’imperialismo. Coloro che vogliono superare il sistema economico vigente, e non solo limitarsi a qualche ritocco di facciata che lascerebbe immutato il sostanziale sfruttamento che caratterizza il sistema stesso, devono pertanto impugnarla. La questione nazionale è la lotta in difesa della sovranità nazionale e dell’indipendenza (non solo formale) del proprio paese e degli altri paesi in lotta contro l’imperialismo. E’ la lotta propria della nostra epoca storica, i cui limiti sono ben più ampi di quanto aveva stimato Hobsbawm nel suo “secolo breve”. La questione nazionale è estremamente attuale in un momento in cui gli Stati Uniti con i loro vari tentacoli (FMI, Banca mondiale, Nato) cercano si svuotare la sovranità nazionale dei paesi e dei popoli che si oppongono alle loro ambizioni di dominio globale per instaurare quel Nuovo ordine mondiale che giustamente Fidel Castro ha definito come la loro“dittatura planetaria”.

La questione nazionale è come un prisma, ha varie facce.
Vi è il lato economico: si tratta della difesa dell’intervento pubblico in economia con un ruolo propulsivo; della proprietà statale sui settori strategici, cioè su quei settori (acqua, materie prime, industria pesante, telecomunicazioni, energia, ferrovia, etc…) che se lasciati in mano privata possono rappresentare un’ipoteca circa lo sviluppo del paese e per lo stesso esercizio della democrazia (non a caso un tempo si parlava di “democrazia economica”). Si tratta, soprattutto, del controllo pubblico sulle leve dell’economia in modo da poter orientare lo sviluppo senza gli sprechi che caratterizzano l’anarchia produttiva tipica del capitalismo, specie nella sua versione liberista. Guardando oggi alla crisi italiana, una giusta declinazione della sovranità da questo punto di vista consisterebbe nel sostenere che è necessario, per controllare e dirigere gli investimenti, la nazionalizzazione del sistema creditizio e non delle sue perdite (come avviene oggi), e che è necessario riprendere una politica di programmazione economica.

Le ricette delle BCE non fanno che farci proseguire sulla strada che conduce al baratro, la stessa strada che abbiamo percorso in questi ultimi 20 anni. Da questo punto di vista la difesa della sovranità dovrebbe farci porre la questione della pertinenza e dell’accettabilità di una istituzione sovranazionale, non controllata da nessuno se non dalle grandi concentrazioni finanziarie e capitalistiche. Una giusta declinazione della questione nazionale su questo fronte dovrebbe spingere a denunciare l’ingerenza della BCE nelle nostre faccende domestiche come inaccettabile e dovrebbe sostenere che l’Unione europea deve essere costruita su tutt’altre basi rispetto a quelle che la caratterizzano attualmente.

Anche sostenere una più equa ripartizione del carico fiscale e lottare contro i meccanismi che favoriscono l’evasione delle classi privilegiate fa parte della questione nazionale.
Alla vigilia della rivoluzione francese la questione nazionale venne posta per la prima volta, non casualmente, in riferimento alla lotta del popolo (allora era il Terzo Stato oggi sarebbe il Quarto) contro i privilegi dei ceti privilegiati aristocratici (oggi sarebbero le oligarchie alto-borghesi e capitalistiche). Allora venne scritto un libello dal carattere fortemente rivoluzionario: “Che cos’è il Terzo Stato?”. In definitiva si rispondeva che il “Terzo Stato” era la nazione e con ciò si introduceva l’idea che gli altri ordini in cui era divisa la società d’Ancien Régime non fossero, e non dovessero contare, nulla. Tantomeno campare in modo parassitario sulle spalle della nazione.

Quel libello, se opportunamente declinato, ci indica parole d’ordine chiare e suggerisce slogan efficaci.

Infine vi è il lato più propriamente politico della questione nazionale: la difesa dell’indipendenza nazionale e la posizione sulla scacchiera internazionale. In questo caso la declinazione dovrebbe spingere ad una politica estera più autonoma da quella perseguita dall’attuale governo succube degli Usa. Andrebbero affermate le priorità del nostro paese che è un paese anfibio, euro-mediterraneo e non un paese atlantico. Andrebbero pertanto rafforzati i legami con i paesi del bacino del Mediterraneo (coi quali siamo tra l’altro economicamente complementari) e andrebbe sostenuta la costruzione di un’Europa aperta a questo spazio su basi paritetiche. L’Europa di oggi è solo la testa di ponte dell’imperialismo statunitense puntata al cuore dell’Eurasia per le sue ambizioni guerrafondaie. La triste e squallida gestione della crisi libica da parte del governo Berlusconi, che ha bellamente calato le braghe di fronte ai diktat provenienti da oltreatlantico, si trova proprio al polo opposto rispetto a quanto si dovrebbe fare. La partecipazione del’Italia alla Nato dovrebbe essere pertanto combattuta e dovrebbe essere richiesto il ritiro delle basi Usa e Nato (che sono basi Usa mascherate dietro altra sigla) dal nostro territorio. Andrebbero stretti legami con tutti quei paesi che nel Sud del mondo lottano contro l’imperialismo (a partire dalla prospettiva di collaborazione eurasiatica con la Russia e la Cina e con il blocco latinoamericano in fase di integrazione).

Occorre inoltre ostacolare la diffusione di messaggi anti-islamici, anti-cinesi o quant’altro, perché funzionali agli interessi imperialistici del dividi et impera e perché contrari agli interessi nazionali dell’Italia, che deve puntare alla collaborazione con altri popoli e che non può tollerare o sostenere la demonizzazione di minoranze, destinate ad essere sempre più consistenti, presenti all’interno della comunità nazionale.

Sulla scena internazionale sono oggi molte le realtà che dimostrano che questa strada è percorribile, anche se si tratta di una sfida difficile. Il processo di recupero della sovranità da parte dei paesi del Sudamerica (dal Venezuela al Brasile) che fino a ieri erano solo il cortile degli Usa ha del prodigioso. Come hanno fatto? Quei casi vanno opportunamente studiati nei loro nessi strategici. A un primo sguardo possiamo dirci innanzitutto questo: che laggiù non hanno creduto né alle idiozie “normalizzatrici” sulla “fine della storia”, né alle panzane “destabilizzatrici” che calcavano eccessivamente la mano sulla discontinuità con il passato al solo scopo di disorientare (ricordate lo slogan “nulla è più come prima” ripetuto ad ogni starnuto di capra?). La sinistra italiana si è lasciata invece disorientare, introiettando alcune questioni (la crisi dello stato-nazione, l’inutilità del potere, l’impero e le moltitudini, il superamento del concetto di egemonia e di quello di blocco storico…) che hanno oggettivamente disarmato le forze che volevano un cambiamento.

La questione nazionale è poi, se impugnata correttamente, un’arma che legittima chi la impugna e delegittima i propri avversari, che non fanno nulla per difendere gli interessi del proprio paese e del proprio popolo o che, addirittura, possono essere accusati di tradimento.

La Costituzione italiana rappresenta oggi un programma mai attuato per lo sviluppo e il progresso del nostro Paese; a partire da questo elemento, la sinistra italiana come può sviluppare un’iniziativa politica capace davvero di fermare l’involuzione antidemocratica che ha caratterizzato gli ultimi anni?


La Costituzione della Repubblica è legata strettamente alla questione nazionale. Basti pensare che è il frutto più maturo della Guerra di Liberazione nazionale dal nazifascismo. Come ricordava, non senza ragione, lo storico di parte cattolica Pietro Scoppola la Costituzione era una sorta di “rivoluzione promessa” che indicava la via della trasformazione del Paese, la rotta da tenere e i valori cui ispirarsi. Proprio per questa sua caratteristica la Costituzione repubblicana venne sin dall’inizio profondamente osteggiata dagli ambienti conservatori e da quelli più propriamente reazionari, tanto che la sua attuazione pratica fu sempre ostacolata. Si pensi all’insediamento della Corte Costituzionale, avvenuto solo sotto la presidenza di Giovanni Gronchi (esponente della sinistra Dc) nel 1955, ben 10 anni dopo la Liberazione! Oppure si pensi al caso ancora più tormentato dell’istituzione delle regioni (posticipato fino agli anni ’70 dalle destre, timorose di abbandonare all’amministrazione dei comunisti aree rilevanti del paese). Ma sono le parti di indirizzo più radicale della Carta quelle che danno maggiormente fastidio (i primi articoli di indirizzo e l’articolo 42 che contempla l’esproprio a fini di interesse nazionale e/o sociale). Le correnti che un tempo osteggiavano la concretizzazione degli obiettivi e dello spirito della Costituzione oggi non sono solamente in grado di sabotarla, ma cercano di cancellarla, stravolgerla, tornare indietro. Ciò è stato possibile per un complesso insieme di cause. Riassumendo con una semplificazione, che spero mi si perdonerà, possiamo dire che ciò è stato possibile perché è cambiato il sistema politico. Qualsiasi patto costituzionale vive su un’articolazione del sistema politico, quando questo entra in crisi la carta che ne è la “cristallizzazione” subisce dei contraccolpi. Il nostro sistema si basava sul ruolo dei partiti di massa come collettori ed organizzatori dei cittadini nella vita politica per concorrere all’indirizzo e alla gestione della cosa pubblica. Nel bene e nel male era così. Questo sistema è stato dapprima svuotato e poi cancellato con il terremoto successivo al crollo del muro di Berlino e alla fine della guerra fredda. L’Italia, per la sua particolare posizione geopolitica, è stata il paese che ne ha risentito di più al di qua della cortina di ferro. Oggi le architravi che tenevano in piedi le promesse dell’aprile 1945 sono crollate. Che fare per salvare la Repubblica? Innanzitutto una chiara azione di informazione per spiegare quanto la Costituzione sia avanzata e mettere chiaramente in relazione l’opera di smantellamento che è in corso con la politica di massacro sociale e di vergogna nazionale (si pensi alla guerra in Libia in relazione all’articolo 11) che viene portata avanti. Purtroppo certe disponibilità a mercanteggiare sulla Costituzione sono drammaticamente presenti anche nel centrosinistra, come ha dimostrato proprio l’aggressione alla Libia.



Le formazioni neofasciste che stanno maggiormente prendendo piede nel Paese (soprattutto fra le nuove generazioni) si rifanno spesso a simboli e miti proprie della sinistra (fino al caso limite di Ernesto Che Guevara); come è possibile che ciò avvenga? Come ha potuto la sinistra italiana perdere completamente, nel corso degli anni, il rapporto con il proprio immaginario e, di conseguenza, con le classi sociali di riferimento, sempre più attratte dalle destre?

Abbandonando la questione nazionale, ed anche altre categorie interpretative della realtà o altri punti qualificanti del loro immaginario le formazioni di sinistra (eredi del movimento comunista e/o socialista) hanno lasciato un vuoto. Formazioni di estrema destra si stanno appropriando di determinati simboli di sinistra. O è in corso una mutazione, oppure siamo in presenza di una torsione strumentale che intende sfruttare quel vuoto. In politica, come in fisica, il vuoto non esiste. Quando il tuo antagonista possiede un’arma efficace o un simbolo attraente devi impossessartene e imparare ad utilizzarlo di più e meglio di lui. Il tuo antagonista farà lo stesso con te. Fa parte del processo sfida-risposta che caratterizza le reciprocità politiche. Se tu abbandoni un’arma efficace, un simbolo attraente, lui se ne impossesserà. Ed è quello che ha fatto. Il caso Che Guevara è al tempo stesso emblematico e particolare.

Emblematico perché rappresenta in modo eloquente fino a che punto sia possibile strumentalizzare una figura e compiere un’opera di riappropriazione/travisamento di questo tipo. Ma è particolare perché è da parecchio tempo che la figura di Che Guevara è sottoposta allo strazio e alla deformazione. Di volta in volta se ne è fatto un guerrigliero solitario anarcoide, un libertario senza meta, quando non una rock star da stampare sulle magliette o una sorta di poeta maledetto della rivoluzione (senza ulteriori aggettivi). Che Guevara era più semplicemente un uomo animato da una profonda umanità che, da un’iniziale radice cattolica, era approdato al comunismo. Era un patriota della grande e dilaniata nazione latinoamericana e un internazionalista al tempo stesso. Era soprattutto un combattente antimperialista.

Ben altre figure sono state utilizzate (con grande efficacia) a destra. Penso al recupero e alla rilettura di Gramsci fatta dal leader missino Pino Rauti alla fine degli anni ’80. Forse è il paradosso più eloquente. Intuizioni come quella dell’egemonia culturale sono state “conquistate” dalla destra, ben oltre e ben al di là dello spazio e dei mezzi di cui disponeva Rauti. La sinistra le ha dichiarate ferri vecchi, Berlusconi le ha assunte come parte del proprio bagaglio e, grazie anche ad una potenza di fuoco massmediatica senza precedenti, ha dimostrato che sono vincenti.

Come mai la sinistra abbandonò quei riferimenti, quelle armi?
Vi sono state diverse sinistre in Italia e per proprietà transitiva vi sono state varie modalità di abbandono o, se si preferisce, di disarmo. Tutte legate ad un passaggio cruciale: l’integrazione negativa nel sistema di potere democristiano. L’integrazione nasceva dall’idea di incontrarsi per fare alcune riforme progressive senza toccare alcuni nodi fondamentali. Tra questi vi era la sudditanza atlantica. Il Psi venne risucchiato in questa logica negli anni ’60 e ne uscì sfigurato con il volto di Craxi. Al Pci toccò, con modalità un poco diverse, il decennio dopo. Ad una ad una, dopo la questione nazionale, furono le altre questioni ad essere rimosse o annacquate, tra cui, per allargare i propri orizzonti con un infausto eclettismo, le categorie interpretative della realtà, i riferimenti più solidi alla propria cultura e al proprio immaginario. Ciò non ha tolto solo la capacità di orientare e di unificare le lotte e le rivendicazioni popolari ma ha lasciato addirittura disorientati di fronte ai cambiamenti le stesse élites politiche di sinistra. Ieri come oggi del resto questa rimozione si faceva in nome della lotta contro i settarismi “identitari”. Non si scorgeva, o si fingeva di non farlo, il carattere strategico che avevano quei riferimenti nell’interpretazione della realtà, nell’orientarsi e nell’orientare in un mondo che cambiava velocemente. Da lì in poi sarebbero state recise tutta una serie di radici fino all’accettazione del discorso e dell’immaginario astratto dell’avversario. Restano ancora da soppesare le responsabilità storiche di quanti (nei partiti tradizionali della sinistra ma anche nella galassia della sinistra extraparlamentare e nei così detti movimenti) contribuirono a inoculare il morbo, e lungo quali direttrici questo finì per essere a poco a poco letale. In attesa di sviluppare lo studio possiamo almeno sostenere con certezza che abbiamo di fronte i risultati di quel disastro involutivo e che occorre misurare i nostri passi nel presente forti di quell’esperienza.

venerdì 4 novembre 2011

Usa, primo sciopero generale dal 1946




Dopo i violenti scontri con la polizia, gli 'indignados' di Oakland hanno indetto in città uno sciopero generale per oggi, 2 novembre. Occuperanno anche il porto in solidarietà con la lotta sindacale dei 'camalli' di Longview

La crescente brutalità della polizia e lo sviluppo di un dibattito politico all'interno delle occupazioni, stanno rapidamenteradicalizzando e ideologizzando il movimento nato a New York lo scorso 17 settembre come protesta confusa e un po' naïve.

A New York i manifestanti che dal 17 settembre occupano la piazzetta di Zuccotti Park battono i denti sotto la neve, dopo che venerdì le autorità hanno sequestrato 'per motivi di sicurezza' i generatori elettriciche alimentavano stufette, cucine e computer.

Sabato a Denver, Colorado, ci sono stati duri scontri tra i manifestanti accampati al Civic Center Park e la polizia, che ha usato spray urticanti, lacrimogeni e proiettili di gomma, ferendo molte persone (FOTOGALLERY).

A Nashville, Tenessee, la polizia statale ha imposto il coprifuoco notturno arrestando i manifestanti che occupavano Legislative Plaza. Lo stesso è accaduto a Portland, Oregon, dove la polizia a cavallo, usando lunghi bastoni, ha dato l'assalto ai manifestanti accampati a Jamison Square.



Ma è soprattutto a Oakland, in California, che la tensione rimane alta dopo il brutale attacco della polizia di martedì scorso, nel quale era rimasto gravemente ferito un giovane marine reduce dell'Iraq. E dove mercoledì 2 novembre il movimento ha indetto uno sciopero generale: il primo negli Usa dal 1946.

Il giorno dopo il violento sgombero dell'accampamento in Oscar Grant Plaza, oltre duemila manifestanti hanno rioccupato la piazza indicendo un'assemblea generalenel corso della quale è stato votata e approvata (VIDEO) la proposta di sciopero generale.

L'appello è rivolto ai lavoratori e agli studenti, affinché disertino fabbriche, uffici, negozi, scuole e università, per convergere in centro città. "Se gli uffici delle banche e delle multinazionali non chiuderanno, marceremo su di essi".

Ma l'azione più eclatante programmata per la giornata di sciopero sarà la marcia sul portodi Oakland, uno dei principali terminal commerciali degli Stati Uniti. "Vogliamo bloccare le attività del porto - dichiarano i manifestanti - e anche manifestaresolidarietà alla lotta degli scaricatori del porto di Longview contro la Egt".

Da mesi i 'camalli' di questo grande terminal sulla costa pacifica dello stato di Washington sono in lotta contro la decisione della compagnia di licenziarli per sostituirli con lavoratori non sindacalizzati. Lo scorso 7 settembre, centinaia di operai avevano preso il controllo del terminal, danneggiando silos e macchinari, prendendo in ostaggio le guardie private aziendali e gettando in mare le loro auto.

"La Egt - spiega l'appello allo sciopero generale di Oakland - è un esportatrice internazionale di cereali che sta cercando di cancellare di diritti degli scaricatori. L'azienda è controllata dallaBunge Ltd., multinazionale dell'agrobusiness con 2,4 miliardi di dollari di profitto nel 2010 e stretti legami con Wall Street. Questo è solo un esempio dell'attacco di Wall Street ai lavoratori".

"Lo sciopero generale di Oakland - prosegue l'appello - dimostrerà le ampie implicazioni del movimento Occupy Wall Street. Il mondo è stanco delle diseguaglianze causate da questo sistema: è arrivato il monento di fare qualcosa al riguardo. Lo sciopero generale di Oakland è un colpo d'avvertimento per l'1 per cento: la loro ricchezza esiste solo perché il 99 per cento la crea per loro".


Il movimento OccupyDenver ha chiesto ai sindacati dell'American Federation of Labor and Congress of Industrial Organizations (Afl-Cio) di sostenere lo sciopero, ma la risposta è stata negativa.
"E' impossibile per i sindacati appoggiare un'astensione dal lavoro visto che tutti i contratti hanno clausole anti-sciopero che siamo tenuti a rispettare", ha dichiarato il portavoce della rappresentanza degli scaricatori dell'International Longshore and Warehouse Union (Ilwu).
Solo lo storico sindacato anarchico americano Industrial Workers of the World (Iww) ha aderito allo sciopero generale di Oakland.

http://it.peacereporter.net/articolo/31309/Usa,+primo+sciopero+generale+dal+1946
Enrico Piovesana