martedì 26 aprile 2011

Costanzo Preve, Marx inattuale. Eredità e prospettiva 
Bollati Borighieri, Torino 2004


Il libro di Costanzo Preve non è solo un saggio storico e critico su Marx e il Marxismo, ma un’opera filosofica, scritta da un profondo conoscitore della filosofia, che intende partire da un confronto finale con l’esperienza marxista, per creare gli spazi teoretici adeguati a ripensare le contraddizioni dell’imperialismo contemporaneo e le prospettive di un suo superamento storico.
Secondo Preve, il pensiero di Marx nasce da un orientamento a rinunciare alla teoresi, intesa come specifica ricerca della verità, fondante ogni particolare scienza particolare e ogni scelta di carattere pratico, e a privilegiare lo studio scientifico e la critica dialettica dell’economia politica inglese, al fine di individuare, nell’emergente realtà capitalista, le condizioni materiali e concrete per una rivoluzione sociale che consentisse di sopprimere l’alienazione reale. Gli elementi filosofici, maturati attorno alle riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione, che si innestavano organicamente sulle linee di pensiero della filosofia classica tedesca, vengono volutamente lasciati incompiuti, a favore di una scelta di prassi rivoluzionaria, considerata da Marx di primaria importanza di fronte ad un presunto conservatorismo politico della filosofia di Hegel, all’inconcludenza di Bauer e della sinistra hegeliana, all’urgenza della situazione storica, sentita dal giovane intellettuale di Treveri come matura per un salto di qualità rivoluzionario, come “gravida di rivoluzione”.
Ne scaturisce una teoria dei modi di produzione e una visione dialettica della storia e del capitalismo, fondate scientificamente ma non filosoficamente. Ciò significa che il materialismo storico è privo di una riflessione fondante di carattere veritativo –tipica invece della filosofia greca e dei classici tedeschi-; la sola che gli consentirebbe di contenere in sé quegli elementi di assolutezza, in grado di sollevarne i valori espressi al di sopra di ogni relativismo storico.
Aggiungiamo che la questione dell’assolutezza del sapere non è sconosciuta all’interno del marxismo ed è tutt’altro che accademica. Lukàcs la solleva con chiarezza ne Il giovane Hegel e i problemi della società capitalista, in modo specifico nei capitoli dedicati alla Fenomenologia dello spirito. Ivi sostiene apertamente che il sapere umano deve avere in sé elementi di assolutezza, che lo sottraggano al cambiamento dei tempi e creino quindi un quadro teorico valido universalmente, capace di orientare gli uomini al di là del cambiamento storico e geografico di teorie, culture, mode e quant’altro. Se, nella vita quotidiana come in quella pubblica, si può far riferimento a principi di valore assoluto, ad una verità –posta naturalmente all’interno di un circolo ermeneutico che consenta il libero dialogo fra opinioni veritative diverse-, ci si può sottrarre più facilmente ai condizionamenti culturali dei sistemi sociali di appartenenza e ai mutamenti opportunistici della politica.
Questo non è certo accaduto al mitico “movimento operaio socialista e comunista”! Per capirlo, senza troppe parafrasi, è sufficiente guardare le immagini delle code chilometriche di auto sulle autostrade di agosto –spesso sorrette da debiti contratti ad hoc pur di poter “fare le ferie”- e ricostruire le vicende politiche di personaggi come Eltsin, Putin, Ferrara, D’Alema, ecc.
In questo saggio, Costanzo Preve cerca anche di capire i motivi più profondi di quanto è storicamente accaduto, soprattutto dopo il 1989. In sostanza, secondo la sua opinione, il pensiero di Marx si muove sul terreno del nichilismo filosofico, rinnegando la grande tradizione teoretica greca e occidentale, e genera, con ciò, gli spazi storico-culturali per la sua sostanziale riduzione, sin dagl’anni del tardo Engels e della II Internazionale, ad ideologia semireligiosa del movimento operaio; un’ideologia fondata su uno storicismo determinista e unilineare, speculare a quello del pensiero borghese sia illuministico che positivistico, paragonato dall’autore ad una linea ferroviaria con itinerario prefissato.
La storia diventa una successione di modi di produzione, espressiva di paradigmi teorici e valori culturali diversi, legittimi su basi storiche, mossa oggettivamente da elementi economici, con una meta finale inevitabile per tutti i paesi del pianeta, come oggi lo sarebbero la globalizzazione neoliberista e la società americanizzata. Dopo la partenza dal comunismo primitivo, si passa per le stazioni dello schiavismo e del feudalesimo; successivamente è necessità che tutte le nazioni
passino a quelle del capitalismo per approdare alla meta ultima del comunismo maturo, che distribuirà secondo i bisogni.
I risvolti culturali e politici più immediati di questa versione del materialismo storico sono l’ottimismo psicologico e l’immobilismo politico di militanti e quadri dirigenti della II Internazionale; le conseguenze di più ampio respiro sono le mentalità camaleotiche, l’adattamento al mutamento dei tempi, di togliattiani, posttogliattiani, postsovietici, che rivelano una povertà sconcertante di valori forti, compendiata dall’immagine televisiva dell’ex numero uno del comunismo internazionale, Michael Gorbacev, che pubblicizza la pizza americana. Com’è stato possibile questo itinerario dal Cremlino alla pizza? Dai valori della “solidarietà socialista” a quelli del più triviale consumismo capitalista? Ci sarebbero in fondo modi più dignitosi per vivere e dialettizzare una sconfitta storica di simili proporzioni!
Sulla base del paradigma ermeneutico, che abbiamo tentato di sintetizzare succintamente, Preve ricostruisce analiticamente gli aspetti essenziali del pensiero di Marx e le posizioni teoriche che ne discendono, ricostruendo anche, con rara chiarezza esaustiva e senso dell’umorismo, i caratteri dei vari “marxismi” del novecento.
Nello specifico, gli orientamenti teorici, variamente comuni a tutte le correnti di pensiero ispirate da Marx, e contenute nella versione deterministica del suo materialismo storico, sono tre: lo storicismo, che riduce l’intera realtà umana a storia unilineare, l’economicismo, che conferisce assoluta centralità e indipendenza ai movimenti dell’economia, l’utopismo, che postula il comunismo quale meta finale e necessaria di questo processo storico deterministico, risultato dell’automovimento dialettico del capitalismo.
In questo contesto spiccano negativamente soprattutto la teoria del crollo spontaneo del capitalismo e del carattere rivoluzionario della classe operaia. La conclusione dell’autore è che il pensiero di Marx potrebbe ancora essere un riferimento valido, a patto di abbandonare completamente questi paradigmi teorici e di fondarlo filosoficamente sulla base di “una concezione ontologico-sociale di umanità”, che si alimenti dalle migliori riflessioni di Marx sulla natura e sulla libertà umane, riprendendo le intuizioni dell’Ontologia dell’essere sociale di Lukàcs (autore di cui, non casualmente, Preve è esperto di livello internazionale).
In questo direzione, nel libro, si pone in luce che una delle radici del pensiero di Marx è la tradizione greca che faceva dell’anima “il fondamento della verità”; e ciò apre in Marx lo spazio “per due teorie, una teoria della natura umana e una teoria dell’individualità umana”. Aspetti del pensiero marxiano analiticamente ricostruiti a partire dal commento di un passo fondamentale dei Grudrisse, in cui Marx evoca un comunismo quale condizione di piena libertà dell’individuo da ogni condizionamento sociale.
La prima teoria fa di Marx il teorico della possibilità di costruire un’ampia varietà di modelli sociali (e non il macchinista della locomotiva della storia), in base all’idea dell’uomo in quanto essere generico, non preordinato, dalla sua specifica struttura materiale, a date e sempre identiche modalità di vita e attività costruttive, come lo sono ad esempio le api che vivono in società e lavorano ma sempre e solo in un dato modo: creando un alveare e trasformando il polline in miele o cera. L’uomo può cambiare le sue attività lavorative, le sue creazioni e le sue forme sociali.
La seconda teoria lo erige a teorico della libertà più autentica e non del livellamento, come del resto aveva già riconosciuto, a suo tempo, Galvano Della Volpe. Su questo terreno, il filosofo di Treveri costituirebbe il più alto momento di elaborazione del concetto di libertà dell’uomo della storia universale. Gli stessi greci infatti –cui Preve riconosce un primato filosofico tutt’ora non superato- rimangono ancora legati alla concezione dell’individuo come persona, maschera di carattere, individuo socialmente condizionato; mentre il pensiero borghese si limita a pensare la libertà in termini di semplice indipendenza formale rispetto ai ruoli sociali prefissati delle società tradizionali, ma ponendola sempre entro rapporti di dipendenza materiale.
Marx sviluppa materialisticamente e porta a compimento l’eredità della migliore Filosofia Classica Tedesca, elaborando un coerente “individualismo sociale”. Nessuno prima di lui avrebbe mai pensato, con questa radicalità, ad un’individualità umana reale, originale e irripetibile, radicata e
organizzata necessariamente in società, solidale con ogni altra individualità, posta da questa stessa società solidaristica nelle condizioni di poter sviluppare, in piena indipendenza da ogni condizionamento eteronomo, ogni aspetto della propria personalità. Nessuno avrebbe posto il passaggio ad una simile comunità di uomini effettualmente liberi, al di fuori di ogni alienazione, al centro della propria attività politica, credendolo pienamente realizzabile nella storia e lavorando per costruire attorno a questo obiettivo un movimento reale di forze sociali organizzate. Questo radicale “individualismo sociale” è, secondo Preve, l’aspetto più rilevante e più fondante del pensiero marxiano, che si collega strettamente alle sue riflessioni giovanili sul problema dell’alienazione e sulla natura umana, ma anche quello più misconosciuto da tutte le sua successive formulazioni.
Ponendo in rilievo la centralità, nel pensiero marxiano, di queste due teorie, il marxismo riassume attualità sia come critica strutturale dei ruoli sociali, che si alimenta dall’ampia conoscenza che Marx aveva dei classici della letteratura universale, sia come teoria della libertà individuale; una libertà ben distinta dall’individualismo borghese, nato sul terreno dell’utilitarismo e dell’egoismo economico.
In questo contesto, Preve fa due considerazioni che rendono ancor più profondo, di quello che non fosse nelle pagine precedenti, il fossato che separa Marx dai marxismi successivi.
In primo luogo, in base alla riflessione antropologica citata, che scorre coerente in tutte le fase del suo pensiero, come aveva già visto Garaudy, l’uomo è in sé soggetto libero, non preordinato a nulla dalla sua struttura materiale specifica, quindi è in grado di esprimere potenzialmente un’infinita varietà di attività lavorative –come dimostrato dalla storia- e di forme sociale. Se non c’è nulla, nella sua natura, che lo costringa a produrre entro un rapporto sociale di servaggio, piuttosto che entro un rapporto di libertà, neppure sul piano storico, è preordinato in base alle presunte “moire” dell’economia che debba passare dal capitalismo al comunismo, o che il capitalismo stesso sia una fase storica necessaria per i popoli che non lo hanno mai conosciuto, come i popoli aborigini dell’australia tutt’ora, o i popoli asiatici del XIX secolo.
L’uomo, come del resto molti esponenti del movimento operaio -marxisti e marxisti- avevano cercato di affermare ad inizio secolo, in reazione al determinismo della II Internazionale, da Lenin stesso al Mussolini del 1914, interagisce liberamente, con le proprie azioni organizzate, sui condizionamenti sociali e sugli eventi storici, cercando di utilizzarli nel quadro delle proprie strategie politiche di cambiamento. Com’è nata la Rivoluzione d’Ottobre –rivoluzione contro “Il Capitale”, secondo il giovane Gramsci, ancora influenzato dall’attualismo gentiliano- se non da una libera interazione fra l’azione politica del quadro dirigente del partito bolscevico, le contraddizioni della società zarista e i contraccolpi disastrosi della guerra?
Dunque la categoria centrale di Marx, partendo dal piano antropologico –quello che, secondo Preve, dovrebbe essere ripreso e fondato teoreticamente con più coerenza da un’ontologia sociale e storica dell’uomo- , non è la necessità ma la possibilità come potenza aristotelica, essente-inpossibilità. In questo senso, è nelle possibilità del capitalismo di essere il terreno di coltura del comunismo, a patto che i comunisti sappiano creare una coscienza collettiva che ne renda attraente l’idea, di fronte alle contradddizioni dell’esistente.
In secondo luogo Marx è pensatore di una forma di libertà individuale che non si può confondere con l’ndividualismo borghese, neppure nelle varianti estreme che esso ha assunto oggi, con quella che Del Noce chiamava la “rivoluzione radicale”; anzi ne è l’antitesi. E su questo terreno tornano ad essere posti sotto accusa i marxismi, in modo particolare quelli radicati nella grande pagliacciata del ’68 e nei velleitarismo democratici del comunismo occidentale. Questi e ad altri marxismi non hanno mai compreso la particolarità dell’individualismo sociale di Marx e lo hanno confuso con le nuove forme di individualismo borghese, sorte con il passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla rivoluzione radicale, e che attraevano spontaneamente il mondo giovanile e femminile: sesso libero, viaggi liberi, musica stravagante, ecc. Su questi comodi fraintendimenti teorici, sulla confusione culturale fra la libertà del comunista e l’orgasmo onanista della femminista, si è poi innestata una precisa, semplicistica e forse anche squallida operazione politica: fare di questa ondata di individualismo radicale e di Pannella il fondamento antropologico-culturale della “Via italiana al
socialismo”. I risultati finali sono, da un lato, la correttezza istituzionale e furbesca di Violante, dall’altro lato, i tossici dei “centri sociali”.
Scrive Preve: “Il marxismo storicista italiano dell’ultimo cinquantennio non ha mai capito letteralmente nulla di questo elementare problema, con la tragicomica conseguenza di scambiare la modernizzazione dell’individualismo borghese nel suo passaggio dall’autoritarismo patriarcale alla liberalizzazione ‘radicale’ (nel senso di Pannella, non di Marx) con la progressiva avanzata storicista della via italiana al socialismo. Si tratta di una vera vergogna culturale nazionale, di cui provo veramente imbarazzo…Il solo pensatore italiano che ci ha capito qualcosa è stato Augusto Del Noce … aveva capito … che la dinamica della modernizzazione radicale del costume non portava assolutamente a un avvicinamento alla transizione parlamentare al socialismo sognata dai visitatori dei Festival dell’Unità, ma al più sicuro e solido assestamento delle società ultracapitaliste”.
Nell’analisi di Preve ci sono però, a nostro personale modo di vedere, due convitati di pietra, cioè due questioni di primaria importanza che rimangono sullo sfondo e non vengono prese in esame. La prima è la dialettica fra l’Illuminismo e il pensiero di Rousseau, che si travasa in gran parte nel giacobinismo francese del 1793. La seconda è il modo in cui Marx vi si rapporta, nella riflessione teorica e nell’azione politica, fra il 1843 e il 1848, anni che vedono anche il conflitto con Weitling all’interno della Lega dei Comunisti tedeschi.
L’Illuminismo, sin dai suoi prodromi greci con la scuola dei Sofisti, pone un problema reale di emancipazione dell’uomo ad una condizione di maturità razionale, in base alla quale ogni individuo valuta liberamente credenze e istituzioni cui aderire. Storicamente, sin dall’età di Pericle, questa esigenza di libertà cresce entro forme economiche mercantili avanzate e ne è condizionata fortemente, assumendo l’aspetto dell’ “individualismo possessivo” –per usare l’efficace terminologia di Macpherson: una cultura tendenzialmente individualista e utilitarista che nega il valore di ogni seria esperienza religiosa umana e, quindi, di fatto, si fonda su un’antropologia materialistica e sensista, come quella di Protagora –nell’interpretazione di Platone- e di Hobbes. Fra sei e settecento, l’ascesa del capitalismo e la modernità borghese si legano a questa linea di pensiero che pensa l’uomo come un “bourgeois” mandevilliano, ripiegato egoisticamente sui propri interessi materiali, entro rapporti sociali esasperatamente individualistici, alienanti e conflittuali. Rispetto ad essa, il pensiero di Rousseau rappresenta un tentativo di far rientrare l’uomo entro valori di integrazione comunitaria, tipici delle società e delle culture tradizionali, fondati su basi religiose. Si tratta di una reazione critica alla modernità borghese e illuminista, che confluirà nell’ideologia giacobina del “citoyen”, radicata in una profonda esigenza di spiritualità che già rendeva la figura di Robespierre invisa ai contemporanei inbevuti di illuminismo ateo (come Danton o Fouché), e a storici di orientamento radicaldemocratico come Michelet od Aulard, che lo accusano di aver impedito la liquidazione del cattolicesimo in Francia, considerata la finalità politica ultima di Voltaire e del movimento dei Lumi.
Che Robespierre sia uno spiritualista ed abbia una visione rivoluzionaria comunitaria e sociale, fondata su una fede religiosa, il cui momento culminante sarà l’istituzione in Francia del culto ufficiale dell’Essere Supremo, è, a nostro giudizio, un dato storico non più confutabili, a partire dal saggio di Henri Guillemin, Robespierre politico e mistico (Garzanti, Milano 1989). Ma sono orientamenti mediati dal pensiero di Rousseau, che sin dalla loro origine si muovevano in polemica esplicita e consapevole con la filosofia del Lumi e con i valori del “bourgeois”, di cui essa era portatrice, sulla scia del giusnaturalismo di Locke e sulla base dell’emergente, sempre più impetuoso sviluppo delle forze produttive capitalistiche.
Di conseguenza le dicotomia Voltaire-Rousseau, Girondini e Giacobini non possono essere inquadrate entro la comoda contrapposizione libertà-uguaglianza, interna al razionalismo illuminista, ancora dominante nelle pigre vulgate accademiche, sia di destra, sia di sinistra, accomunate dal rifiuto pregiudiziale di riconoscere il carattere alternativo radicale della filosofia di Rousseau, rispetto all’Illuminismo, e conseguentemente della visione rivouzionaria robespierrista, condivisa da Saint Just, rispetto alla prospettiva di rivoluzione liberale e giacobina, incarnata dalla Gironda e dai Termidoriani.
Queste considerazioni non sono lontane dall’argomento di questa recensione, per quattro fondamentali motivi. In primo luogo, con il babeuvismo e Buonarroti, il robespierrismo, con tutte le esigenze di virtuosità, di ascetismo spirituale, di semplicità di vita e con tutti i limiti di arcaismo, di cui esso è portatore, rappresenta la cultura dominante del movimento socialista francese del primo ottocento. Fa sentire la sua influenza decisiva anche nelle correnti originarie del comunismo tedesco con Weitling, che ne è palesemente inbevuto. Sino al 1848, il solo Proudhon fa sentire una voce contraria a questa impostazione rousseauiana e giacobina; una voce radicata nell’Illuminismo e nel liberalismo più autentico, che l’aveva sottoposta a critica con B.Constant, nel 1819, nel nome della libertà dei moderni contrapposta a quella degli antichi.

In secondo luogo, Marx, che è, per parte di padre, di formazione mentale illuminista, nella Questione ebraica, miconosce l’alternatività di Rousseau rispetto all’Illuminismo e del giacobinismo rispetto alla rivoluzione liberale e borghese, impostando la dicotomia interpretativa citata libertà-uguaglianza, 1789 liberale contro 1793 egualitario e democratico, su cui è ancora comodamente e pigramente adagiata quasi tutta la sinistra politica e culturale. Rousseau e Robespierre sono dunque la componente più radicale e contraddittoria del pensiero illuminista. In questo ordine di idee non ci sono motivi per predere sul serio le loro istanze religiose: o sono sottaciute, o vengono minimizzate e razionalizzate, classificate sic et simpliciter come espressioni di deismo, come fatto dallo stesso A.Mathièz.
Con ciò si arriva direttamente alla terza considerazione: Marx ha una visione riduttiva dell’esperienza religiosa, come esperienza alienante, espressione di una società alienante; e ciò è molto chiaro proprio nella già citata Questione ebraica. Di conseguenza, la proprosta di una forma di libertà superiore a quella borghese viene esplicitamente fondata sull’ateismo, sulla tendenza distruttiva ad abbattere e a sradicare ogni tradizione religiosa, che richiama proprio l’Illuminismo più astratto, quello che spingeva un D’Alema ante litteram come Fouché a scrivere, sul portone d’ingresso dei cimiteri, “la morte è un sonno eterno”; iniziativa che trovò il suo critico più intransigente in Robespierre, che la denuncia con forza nel grande rapporto, tenuto alla Convenzione Nazionale, il 20 Pratile, sull’istituzione della Festa dell’Essere Supremo.
In quarto luogo, Marx, contrapponendosi a Weitling fra il 1846 e il 1848, ebbe un ruolo essenziale nel distruggere l’egemonia giacobina all’interno del primo comunismo tedesco, con le ricadute a catena che si possono immaginare su tutto il movimento europeo, dato il primato che il suo pensiero vi conseguirà a distanza di alcuni decenni. La contrapposizione fu fra volontarismo puro e radicamento nella realtà storica, fra utopia e scienza, ma anche fra una cultura sentimentale, misticheggiante, premoderna e una cultura fortemente razionalista e scientista, dichiaratamente ostile ai valori religiosi, marchiata dall’Illuminismo più astratto e voltairiano. Ne può conseguire, ove s’indeboliscono la componente dialettica di Marx, l’eredità etica e comunitaria dei Classici Tedeschi, una mentalità affine a quella borghese, aperta a valorizzare tutto ciò che è progresso o presunto tale, scienza, tecnica moderna, liberazione da tradizioni ancestrali, ecc. E allora perchè, se la storia ha conquistato lo stato laico, consentire alle ragazze musulmane il velo a scuola? Perchè non ingaggiare una furiosa battaglia politica contro i cattolici, per consentire lo svolgimento del Gay pride a Roma, in pieno Anno Santo, salvo poi recriminare sulle loro scelte elettorali l’anno successivo?
Naturalmente queste nostre considerazioni non pretendono esaustività e non tolgono nulla al valore dell’opera di Preve. Sono solo uno dei tanti tasselli del mosaico della storia del pensiero e della cultura umane, in questo caso relativa agli ultimi tre secoli e al marxismo, sui quali riflettere, dando sempre per scontata la grande lezione di Hegel: il Vero è il Tutto, non esiste mai una sola e singola causa di un evento, piccolo e grande che sia.

  Prof. Renato Pallavidini

martedì 19 aprile 2011

La storia di Lucio Colletti, un modello di estremo interesse teorico


Lucio Colletti

di Costanzo Preve 

I parte

1. La recente pubblicazione in lingua italiana di un libro di grande interesse storico e teorico (cfr. Orlando Tambosi, "Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di una grande illusione", Mondadori, Milano 2001, £. 38.000) può essere l'occasione per tornare su di un insieme di problemi ancora aperti. Oggi può sembrare che l'arco di temi filosofici e scientifici posti negli anni cinquanta e sessanta da Galvano Della Volpe e Lucio Colletti sia ormai pura archeologia ideologica ed oggetto di tesi di laurea di storia delle idee minori. Ma non è così. Oggi il "silenziamento" sulla discussione del marxismo, italiano ed internazionale, non è un fatto spontaneo della società civile delle persone colte, ma è un fatto politico voluto dai centri di potere editoriale, giornalistico ed universitario. Lo stesso libro di Tambosi, con tutta probabilità, esce semplicemente perché la Mondadori ha una sua berlusconiana strategia editoriale anticomunista, dal libro nero del comunismo all'ultima demenziale sintesi sul Novecento di Robert Conquest (cfr. "Il secolo delle idee assassine", Mondadori, Milano 2001). In ogni caso il libro di Tambosi, edito con il rituale congedo dal comunismo del suo autore, alter ego di Lucio Colletti, merita di essere letto e merita anche qualche commento.

Per chiarezza espositiva, tenendo conto anche della tirannia dello spazio, proporrò al lettore tre ordini di commenti. In primo luogo, è necessario tornare brevemente su Galvano della Volpe, il maestro di Colletti, il cosiddetto dellavolpismo come galileismo morale anti-hegeliano e sulla natura del suo programma di ricerca.. Su questo punto, dirò esplicitamente la mia opinione, per non lasciarla faticosamente indovinare da rimandi impliciti e poco chiari. In secondo luogo, naturalmente, bisogna parlare esplicitamente di Lucio Colletti, ma per poterlo fare in modo chiaro bisogna separare a mio avviso tre distinti problemi, e non confonderli. Primo, occorre proporre un bilancio, sia pure telegrafico, sul Colletti "marxista", o più esattamente sulle caratteristiche originali della sua interpretazione di Marx. Secondo, occorre mettere a fuoco bene il nucleo teorico del "congedo" di Colletti dal marxismo, il modo in cui fu argomentato e la sua pertinenza specifica, indipendentemente da ogni moralismo regressivo sul suo essere traditore o "rinnegato", come fu fatto negli anni Settanta in modo ideologico, ma anche improprio. Terzo, occorre richiamare l'attenzione sul quarto di secolo (1975-2000) del Colletti post-marxista e anti-marxista e sulla sua pittoresca sterilità, per cui di Colletti è proprio possibile dire quello che a suo tempo Krahl ha detto di Adorno, per cui "non ha saputo congedarsi dal proprio congedo".

In terzo luogo, per finire, è bene fare alcuni rilievi specifici al libro di Tambosi, ed in particolare alla sua replicazione clonata del congedo dal marxismo, dal comunismo e dall'anti-capitalismo. Questo congedo unificato, che per questo è un congedo fasullo, è il vero problema teorico del libro, su cui varrà la pena dire qualcosa.

2. Galvano Della Volpe (1895-1968) è stato uno dei più grandi filosofi marxisti italiani del Novecento. Questo mio giudizio non è certamente dovuto ad una mia vicinanza alle sue tesi, da cui sono invece lontanissimo, situandomi anzi alle sue antipodi. A mio avviso, infatti, il marxismo, nella misura e nei limiti in cui può essere correttamente definito una scienza, più esattamente una scienza sociale unitaria dei modi di produzione sociali, non è una scienza nel senso della rivoluzione scientifica moderna, di Copernico e di Galileo, di Newton e di Darwin, ma è una scienza filosofica nel senso originariamente dato a questo termine da Fichte nel lontano 1794. Questa mia ferma e meditata convinzione sta agli antipodi di Della Volpe e di Colletti. Mantengo però il mio giudizio su Della Volpe come uno dei massimi filosofi italiani del Novecento, perché un giudizio storiografico non deve essere mai un giudizio di affinità o di elezione personali, ma sempre e solo un giudizio di livello di un pensiero e di effetto storico da esso avuto.

Costanzo Preve

Della Volpe, considerato da molti un campione dello anti-hegelismo, o anche un campione della tradizione Aristotele-Kant opposta a quella Platone-Hegel, fu in realtà storicamente un prodotto della reazione italiana non tanto a Hegel, quanto a Benedetto Croce ed al crocianesimo, in compagnia di pensatori diversi come Nicola Abbagnano e Norberto Bobbio. Da un punto di vista teorico, la sua critica globale alla dialettica, integralmente ripresa da Lucio Colletti che poi trasformò la stessa critica alla dialettica in una metafisica positivistica di combattimento, non presenta assolutamente alcuna originalità storica, perché si tratta della ripresa pura e semplice, quasi fotocopiata, della critica già rivolta a suo tempo a Hegel nel 1840 nelle "Ricerche Logiche" di Trendelenburg. E' ovviamente il contesto storico ad essere diverso, in quanto fra il 1840 e il 1950 c'è in mezzo Marx, il marxismo e il problema del rapporto fra Hegel e Marx, che è poi il tradizionale modo sbagliato di indicare in forma fuorviante un problema completamente diverso, quello del rapporto fra filosofia e scienza, o più esattamente fra presupposto filosofico e metodo scientifico, in tutta la dottrina marxiana e poi marxista nelle sue varie forme antagonistiche.

Della Volpe propose di sviluppare il marxismo come "galileismo morale". Con questa espressione, per essere più analitici, si intende una scienza sociale costruita secondo il modello seicentesco di Galileo e non secondo il modello della scienza filosofica dell'idealismo tedesco di Fichte e di Hegel, un modello che viene visto come la ripresa moderna del neoplatonismo mistico, quanto di peggio e di più contrario ci sia alla scienza moderna. In proposito, la posizione di Della Volpe non si configura soltanto come un anticrocianesimo integrale, ma come un rifiuto radicale (per me incomprensibile) di prendere anche solo in esame le osservazioni di Husserl sull'impossibilità di applicare direttamente al mondo umano e sociale i modelli quantitativi e sperimentali della scienza seicentesca della natura. Queste osservazioni si possono accettare o respingere, ma sono comunque pertinenti, e non ce se ne libera semplicemente ignorandole o mettendole nei calderoni dell'irrazionalismo, della new age e dei tarocchi (secondo un'abitudine che poi Colletti portò a livelli tragicomici). Per chiarezza verso il lettore, mi trovo costretto nel prossimo punto a dire telegraficamente perché mi sembra che il modello del "galileismo morale" non sia compatibile con il progetto di Marx.

Segue,  http://www.kelebekler.com/occ/colletti02.htm

domenica 3 aprile 2011

Il comune che verrà. Appunti per ripensare il legame sociale nell’epoca della comunicazione in rete
 


Davide Borrelli

Uno spettro si aggira nel mondo, ma questa volta non si tratta dello spettro del comunismo. E’ piuttosto lo spettro del comune, o meglio della comunanza, che esprime la tensione a costruire un orizzonte condiviso tra entità che si trovano in condizioni di differenza. Diversamente dal comunismo, la passione del comune non si esprime in un manifesto ideologico né si concretizza in uno specifico programma d’azione. Per essere precisi, non costituisce neanche una categoria politica, dal momento che si manifesta come un’istanza che è insieme prepolitica, impolitica e postpolitica. Prepolitica, perché ha la forza energetica di un sentire. Impolitica, perché contesta al politico la pretesa di rappresentare la totalità dell’umano. Postpolitica, perché dispiega un nuovo orizzonte di senso e fornisce una nuova agenda per il terzo millennio, in cui trovano spazio pratiche, esperienze, soggettività e forme di vita associata rimaste per lo più in ombra e impensate nel corso della modernità.

Viviamo in tempi di globalizzazione e di comunicazione in rete, fattori che contribuiscono particolarmente ad alimentare l’esigenza che abbiamo di rimettere a fuoco e ripensare il concetto di comunità. Recentemente sono stati pubblicati diversi saggi che affrontano, a partire da differenti punti di vista ed ambiti disciplinari, questo tema, e si interrogano su come sia possibile immaginare nuove forme di socialità al di fuori delle appartenenze date (di classe, di nazionalità, di cultura, di identità ed orientamento sessuale, di etnia, di religione), in grado di garantire insieme le condizioni del massimo sviluppo del sé e della più ampia inclusione del diverso.

Come ogni tradizione di pensiero, anche quella che fa riferimento al comune ha i suoi pionieri e i suoi progenitori illustri. Uno di questi è Georges Bataille, cui Fausto De Petra dedica una monografia che ha il merito di posizionare il filosofo francese tra i classici del pensiero sulla comunicazione. De Petra ne ricostruisce puntualmente l’itinerario teorico che lo ha portato dal bisogno di ripensare l’idea di comunità ad una nuova nozione di comune e di comunicazione.

Lo smarrimento della comunità è la cifra del moderno, che ha messo al centro del mondo sociale la figura dell’individuo come soggetto isolato e autoconsistente. Contro l’autosufficienza dell’individuo moderno si muove il progetto comunitario di Bataille, teso a valorizzare la forza del “religioso” come esperienza sovrana che trascende l’ego e fonda le passioni del legame sociale. D’altra parte, il problema di ogni anelito comunitario è di evitare la sostanzializzazione della comunità, ossia di impedire che l’essere-in-comune si trasformi in un essere-comune totalitario che sopprima la singolarità dei soggetti che vi si riconoscono. Per Bataille la comunicazione non è l’atto di una soggettività compiuta e formata che trasmette agli altri le proprie esperienze. Si comunica, al contrario, a partire da un’intrinseca insufficienza ed incompletezza ontologica. E la comunicazione, d’altra parte, non è trasmissione di esperienze, ma essa stessa esperienza nel suo farsi, se è vero che ogni es-perire si risolve in un movimento es-tatico che conduce al di fuori, nell’ex in cui è esposta l’identità.

Come scrive De Petra, “la comunicazione non può ‘colmare’ l’incompiutezza degli esseri ma li vota, al contrario, a uno scambio infinito, consegnandoli al desiderio del desiderio, all’eccesso che li vota all’aperto” (pag. 107). Una nozione di comunicazione, quella che ci proviene da Bataille, che appare completamente diversa dall’idea che oggi ci è familiare. Quando pensiamo alla comunicazione, tendiamo generalmente a riferirci all’insieme delle pratiche e dei saperi che ci mettono in condizione di raggiungere in maniera più efficiente il destinatario del nostro messaggio. Chi comunica è un soggetto ben definito che si propone di trasmettere un messaggio ben circostanziato ad un altro soggetto, a sua volta ben individuato: la comunicazione è un processo che avviene tra ipseità chiuse e ripiegate sulla propria interiorità. Quello che viene meno in questa prospettiva, che è poi essenzialmente quella dei professionisti della comunicazione, è proprio il carattere, che Bataille invece riteneva fondante, della comunicazione come esperienza del fuori, ovvero come eccedenza rispetto ai limiti della forma individuata.

Che cos’è e come è possibile, dunque, il comune alla luce di questa concezione della comunicazione? Se i soggetti trovano nel comunicare una forza che li espropria da se stessi, il comune non può risolversi in un rassicurante processo di identificazione nel medesimo (negli stessi valori, nella stessa cultura ecc.), ma deve consistere in un movimento di alterazione che pro-voca, cioè chiama ciascuno ad affacciarsi oltre i bordi della propria identità e lo espone all’alterità.

Anche la sfera dell’economia ha riscoperto e capitalizzato il valore del comune come ci spiegano nella loro ultima opera Antonio Negri e Michael Hardt. Il modo di produzione capitalistico che si è fondato tradizionalmente sull’accumulazione privata di risorse materiali, oggi non può fare a meno di energie simboliche e immateriali che si generano autonomamente nel mondo della vita, ovvero nello spazio del comune, inteso come “tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via” (pag. 8).

Mentre un’economia materialista fondata prevalentemente sulla produzione di beni di consumo necessita di forza lavoro fisica, un’economia postmaterialista che ruota intorno all’erogazione di servizi avanzati si avvale dell’intera vita dei knowledge workers in tutte le sue espressioni cognitive, emotive e comunicative, anche al di là della loro specifica prestazione professionale e non necessariamente nei limiti del tempo di lavoro.

Diverso è anche l’idea di soggettività che è al centro di queste diverse forme economiche. Il soggetto dell’economia materialista è l’individuo, identificato da un ruolo specifico e chiuso ad ogni processo che non sia pertinente alla funzione sociale ed economica che si trova a svolgere. Il soggetto di un’economia postmaterialista o della conoscenza è, invece, il singolo, la cui cifra esistenziale consiste nell’incompiutezza, e dunque nello slancio e nell’apertura al poter essere altrimenti. Nel primo caso il soggetto è un atomo chiuso in se stesso, nel secondo è un’onda che non si dà se non in relazione con ciò che si trova al di fuori di sé. L’idea della soggettività come “onda” costituisce il lascito più prezioso sulla comunicazione di Georges Bataille. L’esistenza umana viene così ridefinita come un nodo di comunicazioni reali, il cui flusso non è riducibile a un punto isolato. La comunicazione, in altre parole, non è mai un processo che interviene tra soggetti dati e compiuti, ma il clinamen che li costituisce in quanto tali, e che non smette mai di tenderne i confini e modificarne la forma.

Del senso del comune si è occupato recentemente anche il sinologo François Jullien in un saggio dedicato al dialogo tra culture. Muove dalla constatazione che gli attuali processi di globalizzazione mettono al centro del dibattito la necessità di ripensare i principi e le condizioni che regolano il vivere in comune. Il mondo si è ormai dilatato fino ad accogliere sul medesimo palcoscenico globale universi culturali da sempre periferici e modi di essere che sembrano refrattari al canone dei valori occidentali. La condizione di connettività planetaria in cui viviamo fa sì che non sia più possibile ignorare, come avveniva in passato, queste forme di alterità, e rende quindi sempre più ineludibile il compito di elaborare un orizzonte comune di cui ciascun soggetto culturale possa sentirsi a buon diritto parte.

Ma c’è un rischio nel doveroso compito di assicurare il dialogo tra culture. Il rischio che il comune che dobbiamo costruire possa essere esemplificato sui principi dell’universale o dell’uniforme. E invece è bene sottolineare che il comune non coincide con l’universale, dal momento che quest’ultimo poggia su un’istanza (quella di una ragione astratta e oggettiva che prescinda dalle esperienze dei singoli) che è tutta dentro la cultura occidentale, e che altrove non trova equivalenti né possibilità di essere condivisa in quanto tale. D’altra parte, il comune non è neanche l’uniforme, essendo questo solo l’effetto di una necessità economica di riproduzione seriale di stili di vita e standard produttivi o normativi.

Ma se il comune non può discendere dall’universale né tanto meno può essere confuso con l’uniforme, allora come è possibile articolarlo? Intanto, secondo Jullien va precisato che quello di comune non è un concetto logico (come l’universale) né economico (come l’uniforme), ma eminentemente politico, nel senso che riguarda le condizioni che ci fanno appartenere alla stessa polis. Tra l’universale e il comune vi è la stessa differenza che separa qualcosa che viene prescritto da qualcosa a cui ci si impegna a partecipare, il che vuol dire che nella prospettiva del comune “il dover essere viene considerato non più tanto come qualcosa di preventivamente stabilito, quanto come qualcosa da insegnare e conquistare (pag. 23). Se l’universale opera sul piano di una totalizzazione di principio, il comune è il frutto laborioso di un’estensione progressiva che si acquisisce giorno per giorno attraverso il confronto, anche arduo e rischioso, con l’altro. L’universale ha come contrario il singolare, il soggettivo, ciò che non si lascia riassorbire all’interno della sua normatività impersonale, al punto che per il soggetto l’istanza dell’universale resta priva di significato e diventa comune, nel senso di banale, come qualcosa che si presenta privo di interesse ai suoi occhi, lontano dal suo personale orizzonte di senso e di valore. Il comune, essendo un compito infinito che si realizza per inclusioni progressive nel corpo a corpo con l’alterità, ha invece come opposto il proprio, che è precisamente ciò che arresta il divenire del comune e genera il comunitarismo, ovvero quella formazione reattiva al globalismo fa del ripiegamento identitario lo strumento per escludere e mettere al bando l’altro. Il comune non è, in altri termini, qualcosa che si detiene in forma di proprietà collettiva, è piuttosto, ancora una volta, un fattore di espropriazione che impedisce ai soggetti di compiersi e li proietta ec-staticamente al di fuori di sé. Riaffiora, così, anche nella riflessione di Jullien quella linea di pensiero sul comune e sulla comunicazione che da Bataille porta fino a Nancy.

Dal superamento dei limiti dell’individualità proprietaria al modello del crowdsourcing telematico la strada verso la valorizzazione (in senso sia simbolico che materiale) del comune è ormai tracciata. Che cos’è infatti il crowdsourcing se non la possibilità di forzare i limiti della condizione di persona individuale e generare uno spazio di informazione fluido ed un ambiente cognitivo accresciuto, capace di articolare insieme le onde di soggettività che altrimenti rimarrebbero allo stato di atomi dislocati ciascuno al proprio posto? Clay Shirky ci racconta con dovizia di particolari alcuni casi di cooperazione e di messa in comune di risorse cognitive, che il web consente di organizzare in forma più o meno spontanea. Immaginiamo che il tempo che ciascun individuo trascorre davanti alla tv possa essere messo in comune e dedicato ad attività cooperative. Ebbene, la rete fa proprio questo: permette di aggregare il “surplus cognitivo” della gente e di metterlo al servizio della produzione di innovazioni ed azioni collettive. Ci stiamo abituando ad un nuovo modo di intendere i media, che “non sono solo qualcosa da consumare, ma qualcosa da usare” (pag. 47). Internet ci sta altresì formando al superamento di una cultura individualistica, per cui ognuno consuma il tempo libero per conto proprio, e allo sviluppo di una cultura del comune, in cui ciascuno diventa parte di un processo di produzione di senso collettivo.

Ma forse per comprendere le dinamiche di senso che si sprigionano in rete la rivisitazione del pensiero di autori come Bataille e Nancy è meno incongrua, impertinente e spiazzante di quanto apparentemente non sembri.

De Petra, Fausto, Comunità, comunicazione, comune. Da Georges Bataille a Jean-Luc Nancy, DeriveApprodi, Roma 2010.
Hardt, Michael – Negri, Antonio, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.
Jullien, François, L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, Laterza, Roma-Bari 2010.
Shirky, Clay, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, Codice, Torino 2010.

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